Aostana purosangue, formatasi tra la facoltà d’Architettura e l’accademia delle Belle Arti di Torino, Chicco Margaroli (www.chiccomargaroli.it), classe 1962, è un’artista propriamente detta, che ha esordito come illustratrice iperrealista nell’editoria (per il bimestrale Oasis, 1987) e che poi, essendo una curiosa detective delle discipline e delle tecniche artistiche, ha sperimentato nel corso degli anni parecchio dello scibile dell’applicazione d’arte: infatti, le sue opere comprendono anche installazioni paesaggistiche; costumi/maschere teatrali (per Pierino e il lupo di Prokofiev a La Fenice di Venezia nel 2006); interior decoration per ambienti contract (alberghi e ristoranti) e domestici (abitazioni); accessori moda – calzature e foulard – in pezzi unici o numerati; l’ampolla e la confezione del profumo Ricordati di fiorire (M’ama.Art Fragrances).
Naturalmente annovera anche più tradizionali interventi artistici, sovente realizzati con antiche tecniche pittoriche, per facciate istoriate di luoghi d’ospitalità, quali per esempio il nuovo fiammante Omama Social Hotel di Aosta (foto d’apertura), l’hotel Gran Baita di Courmayeur e la sua brasserie La Sapinière, l’hotel Bellevue di Cogne (Relais & Châteaux), la locanda con ristorante stellato La Clusaz di Gignod, lo stellato Café Quinson restaurant de montagne a Morgeux, e, d’imminente intervento, la Zahir country house di Noto (Siracusa). Insomma, le più suggestive facciate architettoniche istoriate della Valle d’Aosta portano la sua firma e sono tutti progetti ispirati al genius loci e totalmente custom made, perciò unici e irripetibili. Pur essendo legatissima alla sua terra natale, Chicco Margaroli viene sovente richiesta anche all’estero da clienti privati o da organizzatori di manifestazioni, cui difficilmente si sottrae, perché New York o Singapore spezzano un possibile rischio di routine, pur sempre in agguato anche per lei e, dopo, le fanno ancora meglio apprezzare le sue salde radici montane. Il leit-motiv che ha accompagnato tutta la sua carriera artistica è la natura, ripartita tra flora e fauna, declinata in decine di differenti accezioni e applicata nei più variegati modi, ma sempre con l’occhio preferenziale e carezzevole verso soggetti e materiali che ne sono parte o che comunque non la danneggino, come quelli realmente eco-compatibili.
Il suo recentissimo successo è l’Omama Social Hotel (www.alpissima.it) di Aosta, un albergo quattro stelle di 50 camere pet friendly, ricavato da una centrale struttura alberghiera pre-esistente (ristrutturazione dell’architetto Fabio Alba), inaugurato lo scorso 29 novembre, dove ha lavorato come art director, creando l’architettura d’interni, le plurime installazioni d’arte e la facciata esterna continua (400 mq), su entrambi i prospetti, grazie alla tecnologia green di Mosaico Digitale, premiata persino dal National Geographic Italia. Ispiratasi all’insigne Collegiata di Sant’Orso (XII secolo) di Aosta – che, tra il resto, raffigura aquile, teste di capri e d’agnelli, uccelli dalla testa umana, grandi foglie d’acanto e rami intrecciati – Chicco ha disegnato, reinterpretandoli con leggerezza, i soggetti delle collegiata (e parecchi altri), intersecati con fiori e foglie, in brillanti cromie ispirate dal vivace e antistante mercato bi-settimanale all’aperto, da cui sono stati mediati i colori-base: giallo, verde e rosa.
Struttura contemporaneo-cosmopolita, l’Omama Social Hotel è pop, sia nel senso di popolare/sociale che di vivacemente cromatico, che interrompe la secolare e ingessata estetica dell’ospitalità montana, basandosi su tre concept fondamentali – libertà, condivisione relazionale, tecnologia – e ponendosi come approdo non solo per turisti e sciatori (Pila), ma anche per i residenti aostani, i quali possono frequentare l’Omama lounge per una prima colazione, un aperitivo, un brunch o, semplicemente, per lavorare a computer o rimirare le immagini del led-wall senza obbligo di consumazione. Di prossima realizzazione anche una boutique-showroom, Omama Mood, in cui poter acquistare il merchandising dell’hotel: dall’arredo ai complementi (compresi gli imbottiti di Adrenalina, i cui rivestimenti multi-color sono stati scelti dall’artista, o gli illuminanti FlowerPot del 1969 di Verner Panton), alle carte da parati appositamente disegnate e diversamente presenti in ogni camera, che verranno peraltro riprodotte anche in stole e foulard di seta, dalle T-shirt indossate dal personale a specifici componenti delle multiple installazioni d’arte.
Un ulteriore, crescente successo Chicco ha iniziato a registrarlo dal 2015, quando ha dato vita alla collezione Dzoyé (“giocare” nel patois valdostano), cioè quando s’è chiesta se non poteva lei stessa riscoprire e valorizzare un manufatto peculiare del suo territorio, i soques (zoccoli) valdostani, calzatura risalente al Medioevo ed utilizzata in particolare negli alpeggi, che in tempi di ristrettezze economiche veniva passata di padre in figlio, ma che oggi, nell’era del benessere, è stata sganciata dalla sua funzione originaria e rivalutata con soavi interventi artigianal-artistici, in toto personalizzati: non esiste, infatti, un paio di soques uguale all’altro. All’atto pratico, delle opere d’arte ai piedi, in legno morbido e pelle scamosciata, su cui l’artista dipinge (con una mescola pittorica speciale, resistente all’usura ed all’acqua) il soggetto/i commissionato/i dal cliente. E le scatole in cui vengono consegnati gli zoccoli sono, già di per sé, un’opera d’arte. Ai meravigliosi soques (600 euro al paio, acquistabili su www.dzoye.com), che non sono solo femminili (diversi personaggi maschili dello spettacolo li indossano), nel corso del tempo si sono più timidamente affiancati altri tipi di calzatura: i cosiddetti stivali di Brueghel (neri, alti, con dipinti fiori tratti dalle tele del maestro fiammingo) e le papaline/slippers, sempre dipinte a mano su commissione. Per il futuro, Chicco non vorrà però limitarsi alla prestazione pittorica, ma disegnare lei stessa la forma della calzatura, farla realizzare da un calzaturificio artigianale emiliano e, infine, dipingerla.
Per ciò che più strettamente riguarda il suo lavoro con gli elementi più naturali, a livello di materiali si va dai legni delle più svariate e poco utilizzate essenze (come il negletto ailanto) alle foglie di porro, dalle bucce delle cipolle di Tropea alle bucce delle arance di Rosarno, dalle patate di Allein (celebri per l’agostiana Fëta di Trifolle) all’amido di mais, dal limo glaciale ai tessuti organici di animali (vesciche, rumine e persino cuori di vitello), opportunamente lavati, disidratati e stabilizzati con alcoli e sali ricchi di erbe che, dopo lungo trattamento, appaiono come carta pergamena o calcificazioni marmoree. Non a caso, una sua mostra del 1999 s’intitolava Potatura di ritorno: i rami secchi di piante monumentali ed ultra-secolari, ormai disfunzionali alla vita dell’albero, dopo essere stati tagliati tornavano a rivivere grazie all’artista, che li lavorava in base al concetto del “ciò che resta e si rigenera in altra forma”. Mentre la mostra Con.fine naturale (2011) a Saint-Rhémy-en-Bosses, nella valle del Gran San Bernardo, al confine con la Svizzera, introduceva opere costituite da rame e alcuni ortaggi – dalle carote disidratate e scolpite alle patate stabilizzate e rivestite in foglia dorata – che nelle intenzioni dell’artista voleva sottolineare il confine più ‘sensibile’, quello tra l’uomo e la natura; in pratica, soavi installazioni scaturite da una relazione empatica con quel luogo montano, alto e impervio, e il lavoro umano.
Ma Chicco Margaroli è più che avvezza a questo tipo di opere green: infatti, nel 2016, insieme al paesaggista fiorentino Stefano Passerotti ha conquistato, alla sesta edizione del Singapore Garden Festival (www.singaporegardenfestival.com), la medaglia d’oro per la categoria Fantasy Garden e uno dei quattro premi Best in Show della rassegna internazionale (cui concorrevano 79 opere), grazie all’installazione Nature’s Resolution. L’articolato lavoro (80 metri quadrati) era in primis costituito da un tempietto vegetale che sembrava sorgere dalle acque: per attraversarlo bisognava percorrere un camminamento a filo d’acqua, che rappresentava lo scorrere del tempo, iniziando infatti con la luce del sole e terminando con il chiaro di luna. Dall’acqua spuntavano poi dei pipenet, capsule bio-degradabili, che racchiudevano sculturine, realizzate con rami e gocce di rugiada dipinte, intrecciate con l’orientale e strisciante pianta medicinale Bacopa monnieri o Issopo d’acqua. Al centro, pendeva dalla cupola del tempietto una moltitudine (366 quanti i giorni di un anno bisesto) di parallelepipedi trasparenti, in colla di pesce, al cui interno c’erano semi multi-colori – dalle lenticchie al riso nero, al sesamo – scelti per le loro proprietà benefiche; come pure la Tillantsia Usneoides, sospesa in aria con la funzione di purificare l’atmosfera, e inversamente la Pistia Stratiotes, conosciuta anche come Lattuga palustre.
Info: Chicco Margaroli, via Antica Zecca 22 /via Sant’Anselmo 31, 11100 Aosta – tel. 0165 31547 – cell. 328 6680500 – chicco@chiccomargaroli.it – www.chiccomargaroli.it –
Testo/Olivia Cremascoli – foto/courtesy Chicco Margaroli