C’è qualche problema nei cieli internazionali, almeno a giudicare dai numeri a nostra disposizioni, i quali evidenziano una discrepanza all’apparenza semplice, ma che potrebbe portare a risultati estremamente dannosi. Ci spieghiamo. In tutto il mondo il traffico aereo – civile e commerciale – negli ultimi anni ha sempre fatto registrato un costante incremento: nulla di trascendentale, intendiamoci, ma anche soltanto un aumento continuo del 2- 3 % annuo (lo scorso anno in Italia ha registrato però un + 4 % ) significa un comparto estremamente dinamico, dove nel tempo si possono programmare la nascita – oppure l’incremento – di nuove compagnie, un maggior numero di velivoli in volo, di piloti e di personale, insomma una buona crescita per l’intero comparto.
Dall’altro i costi dei biglietti aerei sono a volte ridicoli, quasi imbarazzanti, tanto che per sopravvivere molte compagnie debbono ricorrere alla spese accessorie (non sempre legittime e spesso fastidiose) come il numero ed il peso dei bagagli, il bagaglio in cabina, la scelta del posto, ecc. Oggi per volare anche parecchio lontano si può spendere ragionevolmente poco, basta sapersi destreggiare in una selva di prenotazioni, su diverse tratte si può finire per spendere più di taxi che di biglietto aereo. Inoltre le tariffe non scendono neppure quando crolla il prezzo del petrolio a livello internazionale.
Con una simile premessa non deve sorprendere il fatto che, ovunque nel mondo ci sono due soldi ed un po’ di imprenditoria – reale o palesata – là sorge una nuova compagnia secondaria a quella di bandiera, non sempre necessariamente low coast, un termine che è andato perdendo nel tempo il proprio significato originale. Ormai tantissime nazioni, anche non particolarmente importanti, a fianco della compagnia di bandiera (che spesso si regge sugli aiuti di stato, mascherati o meno, perché altrimenti avrebbero già chiuso bottega da un pezzo) ci sono una più compagnie private. Nascono come funghi, ma altrettanto facilmente vivono una breve vita di stenti, per poi chiudere poco dopo. E’ accaduto troppo spesso negli ultimi tempi a livello internazionale, tanto da porsi spontanea la domanda se sia poi così difficile – quasi al limite dell’impossibile – mantenere in attivo una compagnia aerea. Sembra quasi predomini una maledizione comune nei cieli internazionali, oppure si tratta di errori umani, di passi più lungi della gamba, di previsioni errate, di dirigenti non all’altezza, di programmazioni sbagliate, ecc. ecc.
Pochi giorni fa è fallita la compagnia secondaria (o terziaria) turca Atlas Global Airlines, attiva come base ad Istanbul dal 2001 ed operante con 16 velivoli Airbus su una cinquantina di rotte in Europa, Medio Oriente e Golfo Persico. L’altro giorno ha portato i libri in tribunale Ernest Airlines, piccola compagnia italiana con base a Malpensa dal 2017, attiva nei volli low coast tra Italia , Albania e nazioni dell’est europeo a tariffe stracciate. Appena nei giorni scorsi la notizia, improvvisa, della chiusura definitiva su due piedi non di una compagnia qualsiasi, bensì di Air Italy, seconda compagnia italiana dopo Alitalia (la quale sappiamo bene in quale situazione si trovi), attiva dalle basi di Olbia e di Milano Malpensa. Una compagnia con una storia lunga ed assai travagliata, significativa sulla nostra tesi. Nasce infatti con il nome di Alisarda (troppo facilmente storpiato in Alitarda per le continue disfunzioni) e base ad Olbia per voler del principe ismailita Aga Khan, proprietario della novella Costa Smeralda, per portare il traffico turistico internazionale in Sardegna. Accumula bilanci in profondo rosso, sempre saldati dal principe, finché nel 1991 cambia il nome in Meridiana e nel 2017 passa da Linate a Malpensa, aprendo numerose rotte nazionali ed internazionali, compresa New York e Miami. Pare la svolta benefica, ma i conti invece peggiorano, tanto che nel marzo 2018 diventa Air Italy – in proprietà tra l’Aga Khan e la compagnia Qatar Airways – aprendosi ancora maggiormente alle rotte internazionali. L’11.2.2020 i due soci in videoconferenza tra Milano e Doha hanno deciso di non voler più immettere danaro fresco in un pozzo senza fondo, capace di accumulare bilanci in un rosso crescente per centinaia di milioni, senza alcuna speranza di inversione di tendenza.
E così l’Italia si è trovata, dalla sera alla mattina, senza un’azienda con 1.450 dipendenti (oltre all’indotto), con la Sardegna priva di collegamenti aerei in una stagione in cui il turismo denuncia fortissime preoccupazioni per una crisi economica generale incombente e per il blocco dovuto al contagio di coronavirus, oltre a perdere un parte non indifferente del suo esistente traffico aereo come nazione, difficilmente sostituibile. Poi ci sono anche casi di compagnie attive ed aggressive come Ryanair, in continua crescita ed espansione, spesso impegnata in vertenze sindacali o di tribunali, che si regge sul filo del rasoio: se si ferma un attimo è perduta. Leggo sui giornali di categoria una lamentela corale di albergatori siciliani, i quali lamentano una carenza di voli sull’isola, in grado di penalizzare sensibilmente il volume dei loro affari. Lamentela legittima, ma prima di invocare la nascita di qualche compagnia locale, andrei indietro nel tempo passato, quando ciò è stato fatto almeno un paio di volte, con risultati disastrosi: poche rotazioni reali, sospese quasi subito, senza apportare alcuni reale benefici a nessuno e lasciando debiti insoluti e disoccupazione. No grazie, una compagnia aerea evidentemente non si improvvisa.
Testo/Giulio Badini – Foto/Google Immagine