Esuberante, caotica, poetica, romantica, di tutte le città italiane Napoli è quella che più sfugge a ogni tentativo di classificarla. Sembra quasi una creatura viva, con i suoi mille, stretti vicoli pieni di storia, le sue case con i caratteristici panni stesi, dove ancora puoi vedere gente che si lancia dalla finestra la chiave del portone di casa o si parla da una balconata all’altra, come se fossimo ancora negli anni ’50. La Napoli con i suoi straordinari abitanti, la sua atmosfera unica, dove persino l’aria che si respira sembra diversa. In proporzione alle sue dimensioni, si tratta di uno dei luoghi più densi di storie, volti, persone, aneddoti e tesori, grazie anche alla sua particolare estensione sia in profondità, con una città sotterranea ancora oggi non del tutto esplorata, e che meriterebbe una storia a parte, sia in altezza, a causa dell’edilizia, spesso abusiva, iniziata nel XIII secolo, e persino in larghezza, grazie alla sua caratteristica di storica città portuale.
Chi scrive ha esplorato Napoli più di quanto riesca a ricordare, eppure ad ogni occasione è come se aprisse questo scrigno per la prima volta, perdendosi tra storie e ricordi. Ma c’è un luogo, in particolare, collegato ad un personaggio che non si penserebbe mai di trovare nel capoluogo campano. Un nome che parte nel XV secolo da Sighișoara , in Romania, e finisce qui a Napoli, in un enorme complesso religioso risalente al 1280. Via di santa Maria la Nova, a prima vista, sembra soltanto una delle innumerevoli, affascinanti stradine del capoluogo campano. A poca distanza dall’università e dalla centralissima Corso Umberto Primo, appare circondata da ristoranti di sushi, hotel e pub in stile inglese, ma anche dai tipici balconi con i panni stesi e finestre dalle quali ci arriva il profumo del caffè napoletano.
Quasi anonima in mezzo a questo perenne presepe vivente, c’è una chiesa con una doppia scalinata frontale, ed una piccola entrata laterale. Da fuori sembra anonima, solo una delle innumerevoli chiese che riempiono la città dei napoletani, popolo da sempre religioso ai limiti della superstizione. Ma questa piccola, quasi nascosta entrata laterale ci porterà in uno dei complessi monumentali più grandi e affascinanti d’Italia, la cui storia inizia nel Basso medioevo. Nella seconda metà del XIII secolo Carlo I d’Angiò, vista la brutta aria che tirava in seguito ai Vespri siciliani del 1282, venne cacciato dall’isola e si trasferì in Campania, dove continuò la sua carriera come sovrano di Napoli. Già una decina di anni prima, quando era ancora re di Sicilia, aveva dato ordine di costruire un castello vicino alla costa partenopea, poi conosciuto come Castel Nuovo, o Maschio Angioino. Ma sul luogo della costruzione, considerato strategico dal punto di vista militare, sorgeva già un convento di frati minori, conosciuto come Santa Maria Ad Palatium. Carlo, da sempre sensibile alle esigenze dei frati, come risarcimento donò loro un terreno poco distante, dove poter costruire un nuovo, e più grande, monastero. Quello che poi sarebbe diventato, appunto, Santa Maria la Nova.
Il complesso, oggi, è una sorta di enorme tesoro artistico, religioso e architettonico, un labirinto che racchiude mostre di arte moderna (arte vera, non quella astratta e incomprensibile), reliquie di santi, mobili antichi, sale per congressi, statue, lapidi, affreschi e gli immancabili, splendidi presepi napoletani. Ma la parte che ci interessa nella nostra storia si trova nell’angolo destro del chiostro dove, quasi persa tra marmi, colonne, panchine di legno ed affreschi, si trova la tomba di Matteo Ferrillo, rampollo dell’omonima dinastia. Realizzata da Jacopo della Pila nel 1499, è sigillata frontalmente da una lapide con incisi alcuni simboli piuttosto insoliti nell’iconografia religiosa, in particolare nell’araldica dei Ferrillo. La storia di questa lapide parte da Sighișoara, nella Romania del XV secolo, e coinvolge uno dei nomi più famosi della storia e della letteratura. Nel 1476 Vlad Hagyak III, detto Tepes, poi diventato molto più famoso come Dracula, per tre volte potente voivoda di Valacchia, sparì dalla circolazione nel corso di una battaglia contro i turchi, suoi storici nemici. Dato per morto, in verità il suo cadavere non venne mai ritrovato. Solo intorno al XIX iniziò a circolare la voce che fosse stato sepolto in un monastero ortodosso al centro del lago di Snagov, in una tomba che nel 1933 gli archeologi trovarono vuota.
Ma torniamo a quella storia del 1476. Qualche anno prima della sua scomparsa di Vlad Tepes, secondo alcune cronache, giunse a Napoli una principessa slava dell’età di sette anni, accompagnata da Andronica Arianiti Komnina, vedova del condottiero albanese Giorgio Castriota Skandeberg Messa in salvo di nascosto, per volere del padre, dalle incursioni dei turchi, Maria venne poi adottata da una nobildonna napoletana sotto la protezione di Ferdinando “Ferrante” d’Aragona, a quel tempo re di Napoli ed esponente di spicco dell’Ordine del Dragone, di cui faceva parte, guarda caso, anche Vlad Tepes. Secondo ricostruzioni successive la fanciulla, e qui la storia inizia a farsi interessante, era una certa Maria Balsa, unica figlia femmina di Vlad Tepes (gli altri, maschi, erano Vlad, Mihnea Cel Rău, e Mircea, sparito dalla circolazione nel 1483). Passati alcuni anni Maria, che nel frattempo, si era ben inserita nella vita a corte, sposò il conte Giacomo Alfonso Ferrillo, rampollo della celebre famiglia da sempre fedele al re Ferdinando, ricevendo in dono, tra l’altro, alcuni terreni ad Acerenza, in Basilicata. Un particolare, questo di Acerenza, molto interessante, come vedremo.
Forte dei suoi nuovi poteri di fresca nobildonna, Maria decise di recuperare quel che ne era rimasto del celebre padre. E qui le teorie diventano due: la donna si limitò a far recuperare la salma di Vlad, facendola poi trasportare a Napoli, oppure riuscì a ritrovare il padre vivo e vegeto, prigioniero dei turchi, lo riscattò e lo portò a vivere a Napoli, dove il voivoda passò in relativa tranquillità gli anni che gli restavano. In entrambi i casi, Maria avrebbe poi fatto deporre la salma di Vlad nel sepolcro della famiglia Ferrillo, poi sigillato con la famosa lapide che stiamo osservando ora. Il primo simbolo che si nota è quello del drago che, come abbiamo visto, rimanda all’alleanza di cui facevano parte, tra gli altri, Vlad Tepes e Ferdinando d’Aragona. Le due sfingi, poi, sono il simbolo della città di Tebe, che in antica lingua egizia si pronunciava Tepes. Ma qui l’indizio è solo etimologico, dal momento che Vlad Tepes, “l’impalatore” in lingua rumena, doveva il suo soprannome non a un qualsiasi legame con la città dei faraoni, ma a una sua poco diplomatica abitudine nel trattare i nemici.
Altrettanto interessante, ai lati del dragone, è il simbolo dei due delfini. Oltre che presente nello stemma della Romania, paese natio di Vlad, il doppio delfino indica anche una zona che ricadeva sotto il dominio del celebre voivoda valacco: Chilia, nella regione storica della Dobrugia, dove a metà giugno del 1462 l’esercito di Vlad Tepes combattè un’epica battaglia contro le forze dell’Impero ottomano.
L’unico altro luogo in tutta Italia in cui si trovano simboli simili è la cattedrale di Acerenza, in Basilicata, proprio nei terreni che Maria Balsa e Giacomo Ferrillo ricevettero come dono di nozze. Tra parentesi i due, poco dopo essersi sposati, fecero anche restaurare di tasca propria l’edificio religioso, un luogo ancora oggi talmente pieno di simboli, aneddoti e curiosità da poter riempire un romanzo di avventure.
Ma i legami tra Santa Maria la Nova e la storia di Vlad Tepes non si limitano alla lapide. Ci spostiamo all’interno della chiesa, proprio dietro la famosa tomba, nella cappella Turbolo. In mezzo a canti gregoriani in filodiffusione, statue religiose, mostre d’arte (al momento della nostra ricerca l’edificio ospita anche un’eccellente esposizione di presepi napoletani) e reliquie di san Giacomo della Marca. Qui, in una piccola cappella laterale, si trova un’epigrafe ancora oggi quasi totalmente intraducibile. Nel codice, in seguito identificato come un insieme di scritte greche, copte, latine ed etiopiche, probabilmente sovrapposte, l’unica parola abbastanza chiara e comprensibile è, guarda caso, il nome Vlad, inciso più volte in caratteri cirillici. Nel corso di ricerche successive verremo a sapere che l’epigrafe, che un tempo si trovava vicinissima alla tomba di Mattia Ferrillo, si credeva risalente all’800. Ma successive indagini di Claudio Falcucci, ingegnere nucleare che si occupa anche di diagnostica dei beni culturali, hanno permesso di retrodatarla di tre secoli, portandola proprio al periodo di Maria Balsa e del suo celebre padre.
La possibilità che i resti del famoso voivoda si trovino a Napoli ci sembra solida. Al di là degli indizi che abbiamo visto e spiegato nel corso del reportage, negli ultimi sei anni vari studiosi hanno confermato i dati storici e, ci dicono, hanno persino esaminato più in dettaglio l’interno della tomba, utilizzando delle sonde messe a disposizione da Olympus. In un’occasione Giuseppe Reale, già direttore del complesso di Santa Maria la Nova, affermò che si potrà procedere all’apertura della tomba solamente quando tutti gli indizi storici ed i vari rilievi avranno dato la conferma che sì, molto probabilmente lì dentro, nel cuore di Napoli, dietro quell’affascinante e misteriosa lapide non riposa Matteo Ferrillo, ma uno dei personaggi più famosi della storia romena e, grazie a un certo Bram Stoker, della letteratura mondiale.
Testo/foto di Emiliano Federico Caruso