Umile e senza pretese, d’accordo. A causa di un incidente non faccio più immersioni tecniche in trimix, e questo limita ovviamente le profondità che posso raggiungere e quindi i relitti che posso andare a vedere. Ho conosciuto grandi e famosi cacciatori di relitti, e con qualcuno di loro ho una specie di amicizia; con altri la semplice conoscenza data dalla comune passione che ci porta negli stessi luoghi o alle stesse serate. Però, anche se non potrò mai andare a 150 metri di profondità o farlo per lavoro, mi sento lo stesso uno di essi. Una persona che adora innanzitutto andare alla ricerca storica delle loro vicende, spesso colme di tragedie e grandi qualità umane, altre volte semplici errori o casi sfortunati. Non so se abbiate mai letto i due libri scritti da Clive Cussler che raccontano la sua passione per le navi perdute; sono eccezionali, trasmettono perfettamente quello che muove ogni persona che adora visitare i relitti: ricerca, mare, avventura, immersioni, natura, storia. Per questo quando parto per una vacanza oppure ho tempo a disposizione comincio a muovermi in fibrillazione, alla ricerca di nuovi relitti da visitare, nuove storie da raccontare.
A volte dal punto di vista subacqueo si tratta di immersioni difficilissime, in altre occasioni alla portata di tutti; allo stesso modo alcune vicende rimangono avvolte dalla nebbia della storia e fitte di mistero, altre sono invece note per chiunque. Per finire alcuni viaggi ed alcune storie sono intrisi solo di fortuna e piacere, altri come illuminati da una luna malefica. I relitti africani di cui racconterò questa volta fanno parte di entrambe le categorie. Mi accorgo infatti che ci saranno delle difficoltà nel mio viaggio alla ricerca di navi affondate sulla splendida isola di Mauritius, l’isola dell’amore, come arrivo su di essa. Sbarcato dall’aereo dopo il lungo viaggio e presa l’auto a noleggio, attraverso l’isola in direzione nord ovest carico di dolci aspettative; si parla di un centinaio di naufragi nelle sue acque, dai velieri del Settecento a imbarcazioni molto più moderne. La punta settentrionale di Mauritius non a caso si chiama Cap Malheureux, Capo Sfortunato, ad indicare la pericolosità delle correnti e degli improvvisi cicloni che in altre stagioni possono colpire il piccolo arcipelago. Quando parcheggio la macchina davanti al mio piccolo hotel e scarico le valigie con i vestiti e l’attrezzatura, mi si avvicina una persona anziana e si mette a chiacchierare con me. Occorre sapere che i mauriziani, persone di indole gentilissima, parlano abitualmente creolo fra di loro, una commistione fra francese ed inglese (le lingue dei dominatori degli ultimi secoli prima dell’indipendenza); sono perciò perfettamente in grado di parlare francese o inglese con i turisti, ma con un accento pazzesco, che ti porta invariabilmente a far ripetere loro le frasi.
“Ti stavo dicendo” ripete il vecchietto infatti, “che non ti conviene mettere l’auto sotto la palma perché dopodomani arriva il ciclone e non si sa mai!” Il ciclone? Veramente siamo fuori stagione e i siti metereologici italiani non ne parlavano affatto…
Così chiedo in albergo, ma ricevo solo un garbato sorriso di risposta. Mi avvio quindi verso il vicino diving center, dove trovo un giovane manager che parla velocissimo e mi dice con un gran sorriso che “Certo! Domattina ultima immersione alle 7.30, prenoti?” Faccio due conti, poi gli rispondo “Ehi, abbi pazienza: uscita in barca alle 7.30 significa qui alle 7.00, cioè sveglia alle 6.00 che per me sono le 3 di notte considerando il fuso. Non possiamo fare più tardi? E poi, perché hai detto “ultima”?” “Mi spiace, ma il ciclone porterà onde di 6 metri e venti oltre i 120 Km/orari: a mezzogiorno la barca deve sparire dalla costa.” “Ah. Quanto dura? Un paio di giorni come al solito?” “No, chiudiamo per una settimana…” Come si dice: la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo? Per fortuna rimango qualche giorno in più. E sono accompagnato da mia moglie: è l’isola dell’amore in fin dei conti, troverò qualcosa da fare.
Quando finalmente il mare si placa, mi rimangono tre giorni di mare, anche se il tempo è a dir poco instabile: farò un’immersione su di un reef, poi finalmente i due relitti più famosi della zona, la Stella Maru ed il Djabeda. Gli strali di un’avversa fortuna continuano a colpirmi, però: si rompe il chip della macchina fotografica subacquea, impedendomi ogni scatto effettuato sotto la superficie del mare. Per le immagini sottomarine dovrò quindi ringraziare i gentilissimi ragazzi del diving Ocean Spirit di Pereybere ed il mio compagno di immersioni, il bravo istruttore tedesco André Schlobom, che mi invieranno alcune belle fotografie per posta elettronica, perse a causa di un virus, poi di nuovo per la rottura del disco fisso del computer e di un guasto del server, ma alla fine ritrovate. A volte occorre davvero essere rocce nella tempesta per non soccombere. In ogni caso quando la barca del diving si dirige verso i resti della Stella Maru, l’emozione è quella di sempre anche se non c’è importanza storica o particolare difficoltà. Il relitto si trova davanti ad una delle spiagge più belle dell’isola di Mauritius, quella di Trou aux Biches, ed è rappresentato da un vecchio peschereccio d’altura giapponese varato nel 1957 e affondato trent’anni dopo per creare un reef artificiale dalla Mauritius Marine Conservation Society. Lungo 44,5 metri e largo 7, riposava appoggiato col fianco di tribordo sul fondo sabbioso ad una profondità di circa 24 metri, fino a quando il ciclone Dhina nel 2002 lo raddrizzò quasi completamente, rimettendolo in assetto di navigazione.
Era una grossa barca da pesca che operava al largo di Agalega e Saint Brandon e quando venne destinata alla demolizione, si decise invece di farne una base per la vita marina; i locali raccontano che non fu un’impresa facile colarla a picco, perché sembrava che non volesse andare a fondo. Dopo aver colpito la sabbia con la parte poppiera, la prua rimase infatti a galla per parecchio tempo, avendo accumulato una specie di bolla d’aria che fece faticare non poco i marinai locali; quando riuscirono ad affondarla, si sdraiò poi sul fianco destro. I miei compagni d’immersione, provenienti dal Nord Europa, non mancano di prendermi in giro quando osservano la mia espressione sotto uno scroscio d’acqua pazzesco: sicuri che sia la stagione secca? È con molti dubbi quindi che mi immergo: come sarà la visibilità sott’acqua dopo il passaggio del ciclone? Ci sarà molta corrente? Ne varrà la pena?
Come mettiamo la testa sott’acqua ogni dubbio svanisce. La visibilità passa sicuramente i 20 metri e la temperatura dell’acqua di 27 gradi aiuta a mantenere un comfort ottimale con una muta da 3 mm. Subito si vede il relitto che si trova in ottime condizioni ed è molto bello da visitare. Non risulta particolarmente concrezionato di corallo malgrado gli anni trascorsi sotto la superficie, ma è veramente pieno di pesce molto tranquillo e per nulla infastidito dai subacquei.
Ci sono ovviamente molte specie di barriera, tanti grugnitori raggiati di blu (Lutjanus Kasmira) e piccoli branchi di diverse specie che si incrociano, da quelli simili alle boghe ad altri molto più colorati. Vedo anche due pesci pietra, da ammirare alla larga, ma soprattutto molte splendide murene di tipo differente: leopardo, verdi e di una specie mai incontrata finora che scopro chiamarsi in inglese Spotted Snake Eel, che assomiglia ad un temibile serpente corallo. Vicino al fondo incontro una specie di grosso pesce cappone, che la guida in seguito chiamerà “Grondin Volant”, gallinella volante, o Dactylopterus Volitans, veramente molto bella.
Il secondo relitto, che visiterò l’ultimo giorno di viaggio, si chiama Djabeda e si trova davanti ad un isolotto inconfondibile: quello del Coin de Mire, posto ad otto km di distanza da Cap Malheureux. Il suo nome deriva dal mirino che anticamente stava sui cannoni ed aiutava i serventi ai pezzi a prendere la mira per fare fuoco contro le navi nemiche. Attualmente è una riserva naturale che ospita numerose specie rare, con pareti a strapiombo sopra e sotto la superficie del mare e fondali eccezionali per le immersioni. Nella zona, quando i grossi mammiferi non sono disturbati da un ciclone, è normale incontrare i delfini e poco più in là anche le balene che qui vivono stanziali. Il relitto presente in questo luogo è quello del Djabeda, un altro grosso peschereccio oceanico probabilmente giapponese, affondato in perfetto assetto di navigazione anch’esso dalla Mauritius Marine Conservation Society. L’imbarcazione è lunga approssimativamente 44 metri per 10 di altezza e 5 di larghezza e poggia su di un fondo sabbioso di 34 metri ed è famosa per i coralli molli, gli “alcyonaires épineux” (dendronephthya spp.) che vivono su di essa unitamente ai coralli ramificati di tipo Acropora. Fuori da ogni rotta, lontano dall’isola principale e riserva naturale dove è vietata la pesca, si può supporre come possa essere piena di pesce; l’altra faccia dalla medaglia è data dall’immancabile corrente, a volte molto, molto forte. I bravi ragazzi del diving decidono però di farmi un regalo e, mentre gli altri faranno un’immersione di gruppo, io scenderò da solo con un’altra guida, visto che probabilmente finiremo per fare i cattivi ragazzi e prenderci un po’ di minuti di decompressione (con una bombola da 12 litri e la corrente? Io non credo).
Dopo un minuto dalla discesa, rimaniamo infatti da soli, accorgendoci che sul fondo non c’è assolutamente corrente, ma la giornata da immersioni perfetta, con una visibilità pazzesca oltre i 30 metri e nessuna corrente. Anche qua i soliti pesci di barriera e le murene, ma anche due piccole razze, dentici, quattro tonnetti che passano curiosi, jack fish, nudibranchi sulle lamiere decorate da meravigliosi alcionari, pesci pietra, pesci scorpione, pappagalli e balestra, tutti a giocare a nascondino tra le lamiere, nelle quali è possibile effettuare delle piccole penetrazioni. Vicino al fondale incrociamo anche una grossa ballerina spagnola, così difficile da vedere! È un mondo eccezionalmente colorato che ricorda quello delle Maldive, ma allo stesso tempo è leggermente diverso da esso, ma dona sempre una grande emozione e non puoi non rimanere estasiato alla vista di tutta questa vita marina. Al termine dell’immersione, mentre incrociamo un enorme branco di fucilieri striati di blu, vediamo passare anche una bella tartaruga che sembra volerci salutare.
Ci toccherà alla fine fare in effetti un bel po’ di decompressione, visto che i tempi di fondo si sono dilatati con una serenità totale da parte di entrambi. Tornati in barca, la mia guida è entusiasta come un bambino, visto che per una volta non ha dovuto faticare, ma solo divertirsi. I suoi colleghi un po’ meno: c’è stata la ragazza in panico, quello che ha finito l’aria, l’altra che si è (incredibilmente) persa, e lo guardano così con un misto di rabbia e invidia. Lui si gira e mi strizza l’occhio: d’altronde oggi a me, domani a te.
Se pensate di andare a Mauritius e fare qualche immersione, vi consiglio il diving Ocean Spirit di Pereybere, sulla costa nordoccidentale, un team di ragazzi preparati e simpatici dotati di una bella barca per immersioni vicine e lontane (ciclone permettendo).
INFO:Whatsapp +23052552732
Tel + 2302634468
www.osdiving.com
Testo/Paolo Ponga – Foto/Paolo Ponga – André Schlobohm 2020 – Ocean Spirit