A costo di apparire fuori tempo, fuori luogo, spaesata o semplicemente ignorante, ho salutato tutti dicendomi in partenza per l’Armenia, pur perfettamente consapevole di essere diretta in Turchia. La meta reale era infatti la Turchia Orientale, quella dove si trovano oggi i luoghi più rilevanti e suggestivi della cultura armena. Città, chiese, monasteri, palazzi, ponti e fortezze: all’interno dei confini della repubblica armena, oggi ridotta a un decimo della sua estensione storica, ne sono rimasti pochi. È quindi proprio solo con un viaggio nella Turchia Orientale che si possono ammirare, ma solo se disposti a pagare il prezzo emotivo di un percorso doloroso e accidentato nei luoghi della memoria di un popolo che sembra destinato a non avere pace. Oggi più che mai.
Dopo oltre 2500 anni di fiorente civiltà nei suoi territori storici – la prima, tra l’altro, a fare del Cristianesimo la religione ufficiale, nel 301 – è arrivata una lunga serie di invasori, sempre più oppressivi. Dai popoli più antichi come Selgiuchidi, Mongoli, Ottomani e Persiani, fino ai Russi dell’Ottocento, per arrivare all’ agghiacciante genocidio iniziato nel 1915 e durato fino al 1923. In questo susseguirsi di dominazioni e violenze, di conquiste e giochi di potere e confini, la maggior parte del Paradiso Perduto degli Armeni è rimasto in Turchia ed è in questo controverso Paese che bisogna atterrare per andarne ad onorare e ammirare l’eterno e raro fascino. Considerate le “distanze turche”, si può pensare a un trittico della memoria e della meraviglia, che racchiuda nel ragionevole tempo di un viaggio i principali ingredienti di un’esperienza unica, speciale e dall’alto valore sia personale ed emotivo che politico e culturale.
Si parte dall’alto, dai 5.137 metri del Monte Ararat che gli armeni oggi possono ben ammirare dalla loro capitale, Erevan, ricordandosi ogni volta che è rimasto in territorio turco. È il chiaro e fastidioso simbolo di una madrepatria irrimediabilmente perduta, oppure della speranza di riconquistare la libertà e l’indipendenza: in entrambi i casi questa cima scura e spigolosa vanta un forte valore nazionale, e non solo. La fama del Monte Ararat, al di là della bandiera che lo raffigura e di quella che la sua quota sovrasta, ha un raggio di cattura universale. È il Monte di Noè, il Monte dell’Arca, il monte dal quale la vita riprese dopo il Diluvio Universale, come spiegato nel celebre passo del libro della Genesi, 8, 4: “Nel settimo mese, il diciassette del mese, l’arca si posò sui monti dell’Ararat”. Sono pochi versi ma incoronano insindacabilmente questo luogo come il punto di incontro tra cielo e terra, tra divino e umano. E lo sottopongono a continue indagini, perché chiunque lo visiti, credente o meno, cerca quasi per riflesso incondizionato di identificare la zolla di terreno dove si dice l’arca sarebbe stata appoggiata. Non sulla cima, questo è sicuro, ma per molti nemmeno su questa altura: la regione montuosa che compare nelle sacre scritture andrebbe infatti intesa come quella corrispondente a tutto l´Urartu, il vasto territorio compreso tra i laghi di Van, Urmia e Sevan. C’è quindi tutto lo spazio per lasciar vagabondare lo sguardo dei viaggiatori e permettere loro di scorgere resti di Arca, indizi, sensazioni dove più desiderano trovarli: almeno in tal senso, resta la libertà di opinione, nessuna verità è stata per ora imposta.
Intanto, i popoli che abitano il paesaggio secco e roccioso di quest’area ogni giorno, non parlano di Ararat per indicare il massiccio vulcanico che oggi lo domina: gli armeni lo chiamano Masis, i Curdi Ciyaye Agiri (monte Fiero), i Turchi Aéri Daéi (monte Penoso), gli Arabi Jabal al-Haret (monte dell´Aratore). Ognuno lo chiama a modo proprio, concordando sul fatto che la sua vetta più alta sia da considerare sacra, come luogo dove il sole riposa nelle ore notturne e dimorano i khaj, protettori dei re armeni. Ignari di tutto ciò, o ben consapevoli e allora ancor più carichi, emozionati e motivati, gli appassionati di montagna possono raggiungere il sole sulla vetta, con un trekking di tre o quattro giorni da far culminare con la salita all’alba sull’Ararat. A proporlo, è Viaggia con Carlo. Un’escursione per esperti, per via di un ultimo centinaio di metri da percorrere con i ramponi, ma che con una saggia guida può essere affrontata serenamente, conoscendo gli sforzi che la montagna richiede a oltre 4.000 metri di altitudine, in un continuum di pietre e pietre. Si evita l’ipnosi solo grazie al cambio di diametro e, ogni tanto, di composizione. L’assenza quasi totale di vegetazione evidenzia infatti le geometrie dei blocchi di diverse dimensioni, da metriche a decametriche. Protagonisti non abituati ad esserlo diventano i minerali quali plagioclasio e pirosseno, immersi in una matrice vetrosa. Ci si trova catapultati in una scenografia quasi in scala di grigi, cucita sopra uno sfondo blu intenso che fa da cielo. Tinte e atmosfere decisamente surreali come sanno esserlo quelle vulcaniche, per un’ascesa piuttosto morbida e premiante sullo stratovulcano con base di 25 km situato al posto dell’antico oceano denominato Tetide, formatosi colata dopo colata e inattivo da tempo. L’alba ammirata dalla sua cima, dopo una notte di salita a zig zag con pila frontale e tenacia, resta uno spettacolo unico nel suo genere. La comparsa dei primi raggi di sole dietro la cima che da ore appare inarrivabile, rende di colpo l’obiettivo reale e a portata di mano. Regala quell’ultima dose di energie e di pazienza che nessuno sa di avere quando vuole mollare, e lascia come “memo” quanto sia potente l’effetto della natura sull’essere umano, le promesse della luce, del calore e del benessere. Senza perdere di vista la cima conquistata, si può proseguire la scoperta dell’Armenia custodita in Turchia auto-invitandosi come ospite d’onore negli spazi del Palazzo di İshak Paşa, situato nel distretto di Doğubeyazıt, a pochi km dal confine con l’Iran. Arroccato su una roccia scoscesa, spicca in un paesaggio montagnoso e monotono che non fa che esaltare l’unicità della sua architettura inaspettatamente intricata.
La costruzione iniziò intorno al 1685, su ordine di Çolak Abdi Pasha, ma a continuarla fu Ishak Pasha che gli regala il nome, lasciando che il figlio completasse nel 1784 la parte dell’Harem. Quasi un secolo di lavori, per un palazzo imponente e articolato che mescola magistralmente vari stili architettonici amalgamando forme selgiuchide, ottomane, georgiane, persiane e armene con avvincente equilibrio. La sua forma apparentemente irregolare sembra seguire invece lo schema della tradizionale divisione tripartita degli edifici ottomani con le sue 366 stanze originarie, ora non tutte integre e forse nemmeno intuibili tra i resti. Ma di queste 366 stanze, molte sono comunque quelle rimaste ben conservate e che rendono la visita del Palazzo un’esperienza immersiva e suggestiva. Girando per corridoi e spazi di vita domestica si nota la presenza di sei diversi tipi di pietra locale, tutti protagonisti di sculture con motivi floreali, forme geometriche e arabeschi. Il legno è stato utilizzato soprattutto per tetto e colonne e, dorato, anche per gli antichi cancelli poi rimossi sotto la dominazione russa all’inizio del XIX secolo e ora esposti al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Furto del portone a parte, questa meravigliosa fortezza negli anni è stata danneggiata anche da un terremoto, nel 1840, e dai colpi di arma da fuoco sparati durante la Prima guerra mondiale. Però c’è e resiste, resiste e oggi si erge in solitudine guardando l’Ararat.
Fino ai primi anni ’30 la si vedeva dolcemente abbracciata dalla città vecchia di Eski Bayezıt, originariamente un insediamento armeno poi demolito dall’esercito turco dopo una rivolta curda. Inserito nella lista provvisoria dei siti del patrimonio mondiale dell’UNESCO dal 2000, il palazzo ha accolto il suo primo visitatore occidentale nel 1805. Si trattava del consigliere orientalista di Napoleone, Pierre Amédée Jaubert, inviato in missione in Persia. Oggi si possono seguire le sue tracce e varcare la soglia sontuosa di questa costruzione che sa di Armenia, pagando semplicemente il biglietto di ingresso e percorrendone i cortili in successione, con emozione e meraviglia crescente. Il primo, aperto anche ai mercanti e agli ospiti, misura da 50 a 30 metri ed è circondato da posti di guardia e magazzini. Svolgeva lo stesso ruolo del cortile esterno del Palazzo Topkapı, con le opportune riduzioni di scala: ospitava gli affari quotidiani tra commercianti e governanti locali che trattavano di legname, grano, carri trainati da cavalli e armamenti. Dal secondo cortile in poi, via libera solo a chi abitava nella reggia perché qui ci sono gli appartamenti delle guardie, i magazzini del grano, una tomba in stile persiano, e l’accesso all’haremlik (per le donne) e al selamlık (per gli uomini). In questa area del Palazzo si trova il meraviglioso e ben conservato Cortile del Benvenuto, dove il pascià riceveva gli ospiti, tra dipinti di uccelli fantastici e pannelli di vetro con motivi floreali. C’è anche la moschea, con qualche traccia di pittura ornamentale raffigurante gli alberi della vita. Accedendo agli appartamenti del palazzo, si viene a sapere che fin dai tempi in cui era vissuto e abitato, vi era installato un vero e proprio geniale sistema di riscaldamento centralizzato, con tanto di comfort come acqua corrente e sistema fognario. Un particolare inaspettato, ma che non toglie il respiro come fa invece la sala da pranzo. Qui si può ammirare al meglio la variegata miscela di stili che caratterizza questo tesoro armeno, sui muri sormontati da inserti triangolari di pietra in stile selgiuchide, nelle decorazioni armene a rilievo con motivi floreali e tra gli elaborati capitelli di influenza georgiana con inserti di pietra bianca e nera.
L’harem è l’ultima meraviglia del Palazzo, segreta e tutta da scoprire, un perfetto gran finale per una visita che svela l’estrema bellezza che pochi sanno di poter trovare in un territorio che, quando sorvolato, sembra promettere solo pietre e sete. Una dimensione totalmente diversa ma altrettanto fortemente armena e significativa, quella dei tesori che si specchiano sul lago di Van. Con qualche ora di bus (sono circa 150 km), li si raggiunge a 1640 metri sul livello del mare, dove si sdraia il più grande lago della Turchia abbracciato da cime da 4000 metri che fanno sognare gli appassionati di sci alpinistico. Quello di Van è un lago salato e i curdi lo considerano il loro mare, si estende per 3755 km quadrati nella regione che, fino al genocidio del 1915, è stata il cuore degli armeni. “Van in questo mondo, il paradiso nell’altro”, dicevano infatti, sapendo di abbandonarla lasciandola costellata di fortezze, grandi monasteri e piccoli eremi. La maggior parte sono stati completamente abbandonati e distrutti ma oggi, “per il rotto della cuffia”, se ne può visitare uno speciale. Si tratta della chiesa di Santa Croce, situata sull’isola di Ałtʿamar. Si chiude così il viaggio, chiudendo il cerchio, ammirando un pezzo del patrimonio artistico e culturale che è più che mai miracolosamente sopravvissuto, al contrario di molti altri, alla cancellazione culturale e artistica che tempo e persone hanno scatenato contro il popolo armeno. Questo grazie a due persone, un giornalista e uno scrittore che in due epoche e in due modi diversi hanno fatto in modo che oggi sia ancora possibile ammirare e immortalare la bellezza artistica e la suggestiva collocazione naturale di questa piccola chiesa del X secolo.
Si tratta di un esemplare di arte armena unico, raggiungibile con 15 minuti di battello da Van e riccamente decorato, tanto che se si indaga con gli occhi sulle sue pareti esterne, lasciandosi incuriosire, si resta ore ad ammirarlo. Risulta essere anche uno dei luoghi dove gli armeni furono massacrati durante il genocidio, per cui manca il respiro nel visitarlo e molti appartenenti a questo popolo lo considerano un obbligo farlo almeno una volta prima di morire. Il primo a cui dobbiamo l’opportunità di poterlo visitare oggi è lo scrittore curdo di lingua turca Yashar Kemal (1923-2015). Nel 1951, inviato a Van per il giornale locale “Cumhuriyet”, aveva incontrato un chirurgo militare, il colonnello Cavit Bey, appassionato di architettura, scoprendo che le autorità turche avevano ordinato di distruggere la chiesa di Santa Croce. Utilizzando i suoi contatti, sembra sia riuscito da solo a far cambiare idea all’opinione pubblica, ottenendo poi, nel 2013, la medaglia d’onore “Grigor Narekatsi” da parte del Ministro della Cultura Armeno. Pericolo scampato, ma poi per anni gli antichi affreschi sono stati usati come bersaglio di tiro a segno e l’edificio come luogo suggestivo per barbecue e picnic. I primi a denunciarlo furono i giornalisti della testata turca Milliyet ma particolarmente forte fu la voce del giornalista Hrant Dink che ne aveva chiesto esplicitamente la riapertura e il restauro prima degli anni 2000. Nel 2004 anche il giornale Zaman è tornato sull’argomento con un servizio sull’allarme degrado della chiesa di Santa Croce, riuscendo a fare un gran clamore, tanto che nel 2005 parte un progetto di restauro da 2 milioni di euro e 15 mesi di intenso lavoro.
La chiesa messa a nuovo può riaprire le porte nel 2007 ma solo come museo. Il governo turco ha infatti imposto la condizione di non classificarlo come chiesa, negando la possibilità di ripristinare sia le campane che la croce alla sommità della cupola, come nell’originale. Una scelta che ribadisce come la Turchia Orientale, per chi cerca e ami l’Armenia storica, sia e resti un vero e proprio “sito del trauma”, un trauma ancora vivo anche per tutto ciò che continua a succedere nel territorio. Occhi pieni di meraviglia, quelli con cui si conclude il viaggio, ma dentro resta l’impressione di “vuoto”, un vuoto creato da un genocidio avvenuto più di cento anni fa e che si può sperare di riempire almeno parzialmente valorizzando opere storiografiche e letterarie, storie di famiglie e di memoria. Realizzando fotografie e viaggi, sì, viaggi pensati e dedicati, viaggi accuratamente progettati per contrastare un genocidio culturale che, sovrapposto all’annientamento fisico, risulta ancora più insopportabile. Visitare questi luoghi non è un semplice scoprire, ammirare, conoscere, immortalare, ricordare. Significa opporsi a un approccio che vuole ridurre, deformare o persino cancellare la stessa memoria della millenaria presenza armena nei territori anatolici. Significa scegliere, mettersi in gioco pienamente e permettersi di emozionarsi intensamente.
Testo e foto/Marta Abbà