Si nutre solo di Aristolochia rotunda, contendendosela con capre e altri ungulati, mentre sfoggia ali gialle ricamate di nero e punteggiate di rosso. È la farfalla di San Piero (Zerynthia Cassandra) e si può ammirare solo sull’Isola d’Elba, solo nella “Cappella Sistina della Natura”, com’è definito il Santuario delle Farfalle del Monte Perone, intitolato all’appassionata naturalista Ornella Casnati. Questa creatura porta con sé, in ogni suo elegante e quasi impercettibile battito di ali, la preziosa testimonianza della biodiversità elbana. Chi l’ha studiata, come Leonardo Dapporto, docente universitario di Firenze, la indica come una specie geneticamente a sé stante, avvistabile solo in un ristrettissimo areale. Colpa o merito del “senso del mare delle farfalle” di cui alcune farfalle come lei soffrono: sono terrorizzate nel sorvolare anche piccoli spazi marini, troppo esposti al vento e senza “terra in vista”, tanto da decidere di reprimere la propria voglia di libertà e restare “prigioniere” nella loro terra.
La celebre scelta di Napoleone, di trascorrere l’esilio su questa isola, non è poi così tanto originale, quindi. Gli impatti sono certamente ben differenti, però. Lei, la farfalla, è da ricercare con devota pazienza sulle alture interne, mettendo in conto di poterla non incontrare e apprezzandone la modesta riservatezza. Lui, Napoleone, si conferma una presenza ingombrante, quanto sui libri di Storia, ma regala anche un certo sapore ai luoghi in cui ha lasciato il segno. L’ha fatto, così appare, in modo inevitabilmente pomposo, data la sua personalità, ma anche incredibilmente affascinante. Questo, visto dal punto di vista di posteri che, come noi, sanno cosa vuol dire “ecomostro”, colate di cemento, consumo delle coste e deforestazione. Uno spirito spumeggiante come il suo, a zonzo per circa dieci mesi sull’isola, ha lasciato tracce in ogni dove ma una delle più peculiari è la Fonte Napoleone, a pochi passi dal borgo medioevale di Poggio. Prima del suo arrivo si chiamava Fonte dell’Acquaviva, per via di un singolare regime idrico perenne, ma l’imperatore rimase attratto dalle sue ipotetiche proprietà benefiche e curative. Lo ricorda anche una targa ancora oggi esposta che recita come “fiducioso a questa fonte ivi cercando nuova salute e nuova lena […] risanava dei mali corporei e ne partiva guarito”. A questo piccolo edificio sulla curva di una contorta strada interna a un bosco, fa eco (e contrasto) il lussuoso Palazzo della Fonte di Napoleone (foto d’apertura), ricavato da una grande villa di campagna nel dopoguerra e lanciato come luogo di villeggiatura per VIP dal pioniere del turismo elbano, Giuseppe Cacciò. Lo stesso che costruirà alberghi di prima categoria come il Darsena sulle rovine dell’ex palazzo dei Merli del Coppede’ a Portoferraio e il Napoleone vicino a villa S. Martino la residenza estiva dell’imperatore, ma che a Poggio ha realizzato l’impossibile.
Con le sue undici suite e un elegante stabilimento balneare, ha saputo attirare sull’isola in tempi non sospetti i protagonisti del jet set internazionale: da Winston Churchill a Ingrid Bergman, al pittore Giorgio De Chirico, fino al giornalista Indro Montanelli, e a ministri come Scelba e Saragat futuro Capo di Stato o imprenditori come Barilla e Singer. Oggi, di quell’epoca luminosa e mondana, ne resta solo il ricordo: dal 1082 l’edificio è stato trasformato in residence. Da viaggiatori contemporanei, si può considerare quasi una fortuna, perché questo “tramonto turistico” ha permesso a Poggio di conservarsi luogo magico, autentico e potentemente “nativo”. Visitarlo in autunno, significa vagare per vicoli variopinti e vissuti, schivando vasi invadenti di cactus e fiori e alzando gli occhi verso facciate che non vedono l’ora di raccontare la storia di ieri, oggi e domani. Dalla sua piazza del Castagneto regala la vista sul mare, quasi a volersi far perdonare il suo essere arroccato sotto la vetta del Monte Capanne, circondato da boschi di castagno, leccio, carpino nero e agrifoglio.
Per cogliere la sua forma a chiocciola tipicamente medioevale, Poggio va avvicinata dall’alto e percorsa nei suoi vicoli e strette viuzze lastricate in granito, concentriche rispetto alla piazzetta della Chiesa di San Niccolò, una vera e propria minuscola chiesa fortificata, risalente al 1556 e oggi del tutto integrata nell’abitato ancora a misura d’uomo. Per vedere il tipico stile settecentesco elbano che ha ispirato lo scrittore Ernesto Ferrero, per il suo romanzo N. (vincitore del Premio Strega nel 2000) occorre violare – solo con gli occhi – la proprietà privata che custodisce la casetta Drouot. È nei pressi e ci si può fare un salto, sapendo però di dover immaginare da zero i suoi spettacolari interni con eleganti pitture, specchiature floreali dai toni rosati e acquamarina e perfino un pomposo letto “a barca” appartenuto a un importante militare francese. Questa piccola deviazione non deve rubare tempo alla ricerca del Santuario della Madonna di Monserrato. Per intravvederlo, da sotto o da sopra, tra le montagne spelacchiate, svettante sul suo sperone roccioso di modesta altezza che tatticamente lo nasconde ai turisti di costa, è necessario spostarsi verso Porto Azzurro. Tra cipressi e agavi, in piena macchia mediterranea, nel 1606 le cime appuntite e lo scorrere dell’acqua di quest’angolo dimenticato avevano ricordato a José Pons y León dei duchi di Arcos, governatore spagnolo di Napoli e primo governatore della piazza di Longone, il suo amato Monserrat. Potenza della nostalgia, è proprio questo personaggio che vi ha fatto poi realizzare anche questo santuario, in segno di gratitudine per averlo salvato da un’improvvisa burrasca di scirocco che aveva reso pericolosa la navigazione e lo aveva fatto capitare lì. Dopo essere stato per anni celebre meta di pellegrinaggio per marinai, contadini e predicatori d’ogni tipo, oggi può godersi prolungati momenti di calma, preservando il proprio fascino di luogo di culto, come è stato definito dopo il suo restauro.
Nelle sue ridotte dimensioni riesce a concentrare diversi elementi di fascino quali una pianta rettangolare irregolare, una cupola classicheggiante, quasi buffa nel contesto e sormontata da una lanterna, un campanile a vela pensieroso e uno strambo timpano spezzato. All’interno, vi è poi un tesoro scultoreo: la copia della celebre Nuestra Señora Morena conservata nel santuario di Montserrat in Catalogna. Chi la guarda vede Maria su un trono con un bambino in grembo, avvolta in ampi panneggi rossi e azzurri e con un vaso sferico da cui spunta un giglio.Elogio alla delicata bellezza custodita in particolari mai esposti con sgradevole voglia di protagonismo, questo fiore ben rappresenta il modo di essere “isola” che l’Elba ha scelto e confermato in ogni suo metro. Per lo meno in quelli percorsi durante la sua traversata, da compiere ubbidendo – per lo meno per l’85% dei bivi – a una delle ufficiali tracce “storiche” della GTE (Grande Traversata Elbana). Ideato da Mario Ferrari, ex sindaco di Portoferraio e dal suo collaboratore Renato Giombini negli anni Ottanta, questo trekking promette di camminare in equilibrio sulla spina dorsale dell’isola. Non bisogna credergli troppo, perché si tratta di un continuo su e giù, ma con dislivelli moderati che servono per poter far rimbalzare lo sguardo su entrambe le coste. E per raggiungere ogni volta un luogo nuovo in cui trascorrere la notte, se non si sceglie l’opzione tenda. C’è chi sospetta che questo percorso sia nato sotto l’influenza del vicino GR20 Corso ma in comune hanno solo l’iniziale maiuscola. A fronte della massiccia fatica e dell’impronta muscolare del trekking francese, quello elbano è una sorta di passo di danza in cui contano agilità ed elasticità – di corpo e di mente – e la capacità di meraviglia di fronte a tutto ciò che non è cima dichiarata, ma sa produrre picchi di felicità, se raggiunto dallo sguardo.
Si parte da Cavo e si arriva a Pomonte o a Patresi, paesi entrambi che “bagnano i piedi” sulla costa ovest, divisi da meno di 8 km di strada. Non conviene partire di gran lena, accendendo eventuali dispositivi indossabili “performo-centri”, perché doverosa è una pausa fotografica al vicino Mausoleo Tonietti, dove, si gode della vista sulla minuscola isola dei Topi, a 300 metri a nord di Capo Castello, e si visita (solo esternamente) l’impettito edificio che, seppur piccolo, appare imponente e di carattere. L’hanno fatto costruire attorno al 1900 i Tonietti, tra i principali gestori di miniere dell’isola, perché assomigliasse a un faro. Lo ricorda, in effetti, e distrae gli occhi dal fissare il mare con le sue decorazioni in stile liberty, tra cui una civetta intenta a spiccare il volo ad ali spiegate, alcune teste di leone arrabbiato e minacciosi visi tra l’umano e il fantastico.
La prima tappa è Porto Azzurro, da raggiungere con un sereno sentiero poco percorso e dagli ampi scorci che permette di iniziare a orientarsi tra coste, creste e valli. In questo borgo, la sfida è saperne intuire le origini di fortezza, per alcuni anni anche sede carceraria, quando oggi porta con sé tutto l’anno la maschera del villaggio di mare. È attrezzato, ben tenuto, ricco di negozi e ristoranti, fortunatamente ancora non brandizzati e internazionali. L’indizio più evidente è Forte San Giacomo, costruzione voluta da Filippo III nel 1602 per proteggersi dagli assalti dei pirati saraceni.
Nella seconda tappa si parte in salita, senza troppe segnalazioni ma con la promessa di un’altra notte sul mare, su una spiaggia lunga meno di un chilometro ma da cui il tramonto sa estrarre meraviglia come un mago conigli da un cappello. Una magia per spettatori di ogni età che accoglie chi, nel suo secondo giorno di GTE, ha percorso la sua dose di chilometri quotidiani, nel silenzio autunnale di media quota elbana, ancora profumato e animato. Antico importante centro di lavorazione di ferro e rame, oggi Procchio è nota come la sede del ritrovamento della nave romana di Tacca, con il suo prezioso carico ancora in perfetto stato di conservazione. Il suo scafo di circa 23 metri è stato rinvenuto a circa 22 metri dalla costa, con una serie di “ingredienti” che lasciano intuire l’itinerario compiuto prima del definitivo stop elbano. Lo zolfo di Agrigento, il vino Gallico della Costa Azzurra, le anfore spagnole e le ceramiche nordafricane, con i depositi di huntite tipici dei laghi salati di Frigia: gli appassionati trovano tutto esposto nel Museo archeologico di Marciana. Mentre si cammina abituando gli occhi a scorgere il piccolo grande splendore che temporeggia lungo un tornante, o nel sorriso con cui gli elbani sanno accogliere e dare indicazioni, nella terza tappa si incontrano il Santuario delle Farfalle e la Fontana di Napoleone. È un tratto di strada particolarmente ricco di tesori da raccogliere con gli occhi, prendendosi il tempo di cercare le tante farfalle ospitate dall’Isola, oltre a quella di San Piero, e le diverse piante che si alternano sul cammino.
La GTE offre la perfetta prospettiva per apprezzare Poggio dall’alto, assieme alla vicina e nota Marciana Alta. Situata a 375 metri sul mare e risalente al 35 a.C., è uno dei paesi più antichi e ricchi di testimonianze storiche e archeologiche. Nei dintorni, scendendo verso l’ex sede dell’Hotel Fonte di Napoleone, si può sfiorare anche il Santuario della Madonna del Monte, uno tra i più antichi dell’isola, romanico e risalente al XII secolo. Curioso che, nel 1995, durante i restauri alle decorazioni interne, dietro l’altare maggiore sono stati ritrovati affreschi cinquecenteschi attribuibili al Sodoma.
La successiva e ultima tappa corteggia il Monte Capanne ed è concesso e consigliato farsi tentare da una deviazione per raggiungerlo. Una questione simbolica, perché, con i suoi 1019 metri, è il monte più alto dell’isola, ma anche panoramica, potendo da lì godere della vista di Pianosa, Capraia, Montecristo, Gorgona ed anche della Corsica. La cima è affollata di antenne, costruzioni e persone, molte giunte in funivia da Marciana, ma è sicura. Non si riesce a immaginare che la mattina del 14 agosto 1980, intorno alle 6:05, i Servizi segreti francesi hanno fatto saltare proprio sulle stesse roccette quattro cariche di esplosivo per distruggere i ripetitori dell’emittente Radio Corsica Libera, simbolo dell’indipendentismo còrso. Oltre a questo dimenticato episodio, c’è anche l’acqua che collega Monte Capanne con l’irriverente isola francese: nel XVIII secolo si credeva che le acque sorgive del Monte Capanne provenissero proprio da lì, tramite condotte naturali sottomarine. Ci si può tuttora credere, ma meglio concentrarsi sulla varietà degli attuali microcosmi endemici da ammirare durante il percorso. Si possono infatti incontrare varie orchidee di rara forma, oltre 200 specie di funghi, tra cui il porcino nero, e numerose unicità elbane vegetali, come la viola del Monte Capanne (Viola corsica ilvensis), il fiordaliso del Monte Capanne (Centaurea ilvensis) e il Crocus ilvensis. Ci sarebbero anche gli animali, non endemici, ma comunque piacevoli da avvistare. Non è facile riuscirci, ma si può sperare nel corvo imperiale e nel picchio muraiolo, per esempio, oppure nel ghiro, nella martora, nella lepre e nel riccio. Meno gradevole potrebbe essere incrociare cinghiali e mufloni, tra l’altro introdotti all’Elba per scopi venatori rispettivamente nel 1963 e nel 1976 e oggi in soprannumero.
Sempre in questa spettacolare ultima tappa s’incrociano numerosi caprili. Ricordano i “clochan” irlandesi o i “mantarah” della Palestina, con la loro muratura a secco in forma circolare. Erano utilizzati come ricovero per le greggi e per produrre formaggi, oggi spuntano tra giungle di corbezzoli e arbusti profumati, dolcemente diroccati e armoniosamente inseriti nell’ambiente. L’arrivo a Pomonte, per chi ha scelto questo finale di GTE, è un sereno ricongiungersi col mare, in un paesino ben curato e senza molte forzature turistiche. Ci si può anche tuffarsi, scegliendo fra tre piccole spiagge – Le Scalette, Relitto e Ogliera – e immergendosi a pochi metri dal relitto dell’Elviscot. Un altro relitto elbano, ma sicuramente più recente rispetto a quello di Procchio. Questo mercantile è affondato negli anni ’70, ciò che lo può rendere interessante agli occhi di chi sa immergersi, è la vista della sala macchine, con l’intero apparato motore, oltre ai giochi che la luce crea penetrando in feritoie e oblò d’altri tempi. Meno “vintage” il finale a Patresi dove una torre esagonale si affaccia al mare pretendendo di essere un faro, il faro di Punta Polveraia. Inaugurato nel 1909, questo edificio spicca bianco sulla costa “sbandierando” il suo anemometro verso la Corsica che, da questa prospettiva, sembra una sorella maggiore intenta a guardare l’Elba con bonaria invidia per la fermezza con cui resta isola autentica, a tratti selvatica ma ancora ricca di singolarità.
Testo/Marta Abbà – Foto/Alessandra Consonni