Giuseppe Ferlini, nato a Bologna nel 1797, a diciassette anni uscì da casa per contrasti con la matrigna e si recò a Venezia, poi nell’isola di Corfù. Avendo conosciuto il Pascià di Giannina lavorò come medico in Albania con le truppe presenti. Nel 1822 in Grecia partecipò, sempre come medico, nei combattimenti tra i Greci contro i Turchi. Rientrato a Bologna nel 1827, ben presto ripartì, questa volta, per l’Egitto dove Mohammed Alì (che diventerà il padre fondatore dell’Egitto moderno) stava reclutando per l‘esercito anche medici stranieri. Tre anni dopo, stanco del lavoro ospedaliero si aggregò a una spedizione militare che scendeva verso il Sudan sempre con l’incarico di medico.
L’Alta Nubia lo attirava per le notizie che aveva raccolto sui tesori ancora celati tra le sabbie. La scoperta di Meroe, eseguita nel 1821 da Cailliaud, gli era giunta all’orecchio e volle partire alla volta di quella mitica città sepolta. Nel 1834, in pieno agosto, dopo aver organizzato la spedizione, partì verso le antiche piramidi nubiane. La sua opera consistette nel cercare i tesori nascosti all’interno delle piramidi di Meroe, più piccole di quelle ben più note di Giza, ma numerose. Per entrare all’interno di quelle costruzioni funebri, insieme al socio albanese Stèfani, non ebbe alcuna remora a demolire e sbriciolare le parti sommitali pur di penetrare nelle tombe. In quei tempi questa era un’usanza abbastanza comune perché l’archeologia era ancora condotta da avventurieri disposti solo ad arricchirsi (che oggi definiremmo tombaroli) oppure finalizzata principalmente allo studio della Storia dell’arte greco-romana. L’italiano Giovanni Battista Belzoni, in Egitto, aveva già fatto importanti scavi a Giza e nella Valle dei Re tra il 1816 e il 1819.
Finalmente, nella piramide più grande, appartenuta alla regina Amanishakheto, recuperò un vero tesoro di oggetti preziosi. Senza mostrarlo agli indigeni che lo coadiuvavano nello scavo archeologico, nottetempo fuggì su dei dromedari fino ad imbarcarsi su un battello del Nilo e verso la fine del 1836 riuscì a rientrare in Italia a Bologna.
Giuseppe Ferlini, si poteva muovere con destrezza in tutti quei lontani paesi, grazie all’esperienza raggiunta con i suoi viaggi, poiché era in grado di parlare il greco, l’albanese, l’inglese e l’arabo e questo lo favorì molto, oltre al suo aspetto, nelle sue contrattazioni mercantili. Dopo incontri con alcuni commercianti che non avevano dato un buon risultato, Ferlini riuscì a vendere, una parte degli oggetti recuperati, al Re Ludwig I° di Baviera, amante delle arti. Tentò anche di rivendere a Londra altro materiale archeologico coadiuvato dall’esule Giuseppe Mazzini. Oltre a lui, sempre in quella città, aveva conosciuto anche il bolognese Conte Carlo Pepoli che era fuggito dall’Italia per i suoi profondi sentimenti patriottici. Purtroppo il British Museum non accettò gli oggetti proposti perché ritenuti falsi! Fortunatamente l’affare andò in porto, invece, con il Nuovo Museo di Berlino. Il Conte Pepoli rientrato a Bologna e Livio Zambeccari, patriota ed iscritto alla massoneria, permisero a Ferlini di donare al Museo Egizio di Torino (che era stato creato nel 1824) numerosi facsimili di ori e bronzi meroitici. Nel 1843 Ferlini donò alla città di Bologna una serie di oggetti anche preziosi che aveva scavato in Sudan. Morì a Bologna nel 1870.
Testo/Giuseppe Rivalta – Foto d’apertura: Tomba di Ferlini al Cimitero Certosa di Bologna copyright Claudio Busi