Finalmente è arrivato l’autunno, dopo il lungo periodo di siccità capace di far rinsecchire anticipatamente le foglie, che ora ricoprono il terreno con un tappeto multicolore dalle sfumature intense. Perché anche se la primavera risulta la stagione del risveglio della natura, alla bellezza dei suoi colori delicati fanno da contraltare le tonalità calde e forti dell’autunno. Che si tratti di boschi montani o parchi urbani, il mondo vegetale in autunno si trasforma in un’enorme tavolozza dalle tante cromaticità, richiamanti il giallo arancio del fuoco del camino, il marrone delle caldarroste, il rosso di un buon vino corposo per accompagnarle. Le rondini sono volate via da tempo, e a fare indesiderata compagnia ai temerari passanti rimangono i tanti storni, ormai diventati parte del contesto urbano cittadino. Platani secolari sui viali formano una lunga teoria di colore che, come sui Lungotevere, si confonde con le acque color argilla del fiume. In contrasto coi verdi salici che, come gabbiani, germani reali e nutrie, ne hanno colonizzato le rive, un tempo approdo di commerci, immortalati negli acquerelli di Ettore Roesler Franz.
Così come in molte altre città, a Roma ci sono alberi capaci di raccontarne la storia e di alimentare leggende. Come il vecchio cipresso colpito da un fulmine, detto di Michelangelo. Sta presso le Terme di Diocleziano e si ritiene sia l’ultimo dei 4 alberi fatti piantare dal Buonarroti durante la realizzazione dell’attigua Basilica di ‘Santa Maria degli Angeli e dei Santi’, in piazza della Repubblica. Se all’Orto Botanico di Roma c’è l’ultimo esemplare di un antico querceto, stimato possa avere circa 600 anni, ci sono alberi che hanno dato il nome a intere zone. Come la quercia ultracentenaria abbattuta nel 1986 perché pericolante, a cui si deve il nome di ‘Alberone’ all’omonima piazza lungo via Appia Nuova e all’intera zona del quartiere Appio-Latino. Sarà che a Roma ci sono nato e qui ho le mie radici, ma quando ero più giovane e non c’era l’invasione di fast food e pub, e la movida fino al mattino, amavo girare di notte tra i vicoli e i monumenti della mia città, ripensando alle storie ascoltate nella mia infanzia.
Una sensazione persistente ancora oggi, quando entro nei numerosi parchi e ville storiche, capaci di fare di questa città quella con più verde a livello europeo. Ambienti naturali che hanno salvato il ricordo di quando la natura non doveva contendersi gli spazi con la continua espansione urbanistica. Una sorta di portali spazio-temporali, introducono in un’altra dimensione della vita. Perché oltre i cancelli di questi grandi parchi urbani, nati come residenze di campagna delle famiglie nobili legate al papato, cessa il condizionamento della “vita moderna” e il rumore arriva filtrato dal fruscìo delle piante mosse dalla brezza. Qui dominano gli alberi, i quali contribuiscono ad alleviare la calura estiva e ad ossigenare l’aria delle nostre città inquinate. Piante che in questa stagione diventano macchie policromatiche, dal ‘sempreverde’ di pini, cipressi, olivi e sughere, al ruggine dei faggi, al giallo ocra paglierino delle betulle o quello chiaro dei gimkgo biloba. Sono oltre 300 mila gli alberi romani, distribuiti su circa il 67% del territorio comunale. Parliamo di 18 aree protette, giardini, parchi e tante ville urbane, come Doria Pamphilij, Borghese, Ada, Celimontana, Torlonia, Glori o Sciarra, sul Gianicolo. Sicuramente non la più importante per estensione, ma di grande rilievo per arte, storia e natura.
Circondata dalle mura gianicolensi, la villa si affaccia su Roma verso sud-est. Luogo storico della lotta repubblicana contro il Papato, nel 1849 qui si svolsero alcuni degli scontri più cruenti tra il corpo di spedizione francese, inviato da Napoleone III in aiuto di papa Pio IX, e le milizie popolari della Seconda Repubblica Romana di Giuseppe Mazzini, comandate da Giuseppe Garibaldi. Già prima dei Romani, qui c’era un bosco detto ‘Lucus Furrinae’, con il santuario della ninfa Furrina, di cui rimangono solo poche tracce. Tutta l’area fece poi parte degli Orti di Cesare (Horti Caesaris), un vasto possedimento comprato attorno al 49 a.C. dall’allora console Caio Giulio Cesare, estesi fino alla riva Portuense del Tevere. La leggenda narra come al ritorno a Roma sia stata ospitata qui l’allora compagna, la regina d’Egitto Cleopatra (la moglie ufficiale era invece Calpurnia), con il loro figlioletto Tolomeo Cesare, detto Cesarone. Nel 1575 fu acquistata da monsignor Innocenzo Malvasia, il quale vi fece realizzare il primo edificio, un casino di caccia oggi sede dell’American Academy in Rome. Dopo vari passaggi di mano, le aree furono valorizzare nel 1710 dal cardinale Pietro Ottoboni, discendente di una nobile famiglia veneziana, con un’azienda agricola, tre nuovi giardini e piante rare.
Il nome della villa deriva dai principi Sciarra di Carbognano, un ramo dei Barberini. L’acquistarono a metà XVII secolo e ne furono proprietari per oltre due secoli, quando fu in parte ceduta a causa dei debiti accumulati dal principe Maffeo II Sciarra. L’area del ‘Lucus Furrinae’ finì alla Compagnia Fondiaria Italiana, che nel 1889 fu autorizzata dal comune di Roma a fare una lottizzazione speculativa. La parte rimasta agli Sciarra fu ceduta nel 1896 alla Società di Credito e Industria Fondiaria Edilizia, e poi acquistata nel 1902 da due coniugi americani, George Washington Wurts e sua moglie Henriette Tower. Entrambi di Filadelfia, lei era una ricca ereditiera e lui un diplomatico di carriera che, dopo aver girato l’Europa scelse Roma come sede definitiva. Amante dei giardini e collezionista, dopo la sua morte la vedova lasciò la villa in dono «al popolo di Roma», come ricorda la targa in viale Adolfo Leducq, a Trastevere, mentre allo Stato Italiano lasciò le collezioni, tra cui quella di sculture lignee, formata da quasi la metà dei pezzi esposti nel Museo Nazionale di palazzo Venezia a Roma.
I coniugi Wurts trasformarono quei 7,5 ettari di storia con la messa a dimora di nuove piante arrivate da tutto il mondo, e la ristrutturazione completa dei giardini e della palazzina in stile neo rinascimentale. Infine con le statue del 700 in pietra arenaria provenienti da Palazzo Visconti di Brignano Gera d’Adda (Bg), comprate all’asta dopo la morte di Antonietta Visconti Sauli nel 1892, gli ambienti subirono una chiara impronta barocca. Al cancello della villa in piazzale Wurts mi aspetta Antimo Palumbo, presidente e fondatore dell’Associazione ‘Adea amici degli alberi’ (www.adeaalberi.blogspot.com). Scrittore e ‘storico degli alberi’, da diversi anni Palumbo si prodiga per avvicinare le persone alla cultura arboricola e, in particolare, con ‘Incontri con Alberi Straordinari’, alla scoperta del verde storico di Roma. La sua è quasi una missione, perché in tempi in cui risulta più facile tagliare che piantare, divulgare l’amore per il regno vegetale, costituisce un impegno veramente importante.
Per chi non c’è mai stato, qui vale la pena di venirci prima che peggiori, date le condizioni in cui versa, dopo l’infausta idea di qualche anno fa, di dare in outsourcing le competenze prima affidate al Servizio Giardini comunale, passate a cooperative coinvolte nella vicenda di “Mafia Capitale”. Un argomento che vede molto critico questo studioso, mentre mostra lo stato di abbandono attuale, e fa star male a ricordare com’erano quei luoghi quando la villa era uno dei nostri rifugi di studenti, quando marinavamo la scuola. Passiamo accanto alla casa dell’ex custode, oggi abitata da non si sa chi, e andiamo verso la fontana dei Fauni. Guardo la voliera in ferro ormai inutilizzata, dove i Wurts allevavano pavoni bianchi. Mi rallegro a vedere come un nonno stia insegnando al nipotino il rispetto del luogo, invitandolo a raccogliere una carta da terra. Dopo il tunnel d’alloro i colori degli alberi rubano la scena a statue e fontane. Cerco a sinistra l’Esedra arborea, ma al posto delle siepi ben curate di un tempo, osservo solo cespugli informi che quasi occultano le 12 statue simboleggianti i mesi dell’anno. Come una iconografia dei nostri tempi, qui e là panchine sgangherate, fontane e statue danneggiate da vandali sempre ignoti, aree con reperti marmorei, come quella della fontana a Navicella dove un tempo c’era il bosco sacro, recintate ad uso “discarica pubblica”.
A farmi uscire da un opprimente senso di nausea intervengono le foglie giallo paglierino dei ginkgo biloba, alberi oggi ultracentenari che, assieme a cedri, cipressi, palme delle Canarie, sequoie, magnolie e altre ancora furono introdotte dai Wurts, facendo di Villa Sciarra un piccolo gioiello per varietà e provenienza, nel ricco repertorio botanico della capitale. I Ginkgo biloba sono alberi imponenti, capaci di raggiungere 30-40 metri e a starci sotto, su quel tappeto di foglie gialle, ci si sente minuscoli. Unica specie sopravvissuta delle ‘Ginkgoaceae’, le sue origini si perdono nella notte dei tempi. Secondo gli studiosi scomparve da Europa e America 2,5 e 7 milioni di anni fa, per resistere fino ad oggi in Oriente e in particolare in Cina. Fu reintrodotto in Europa nel XVIII secolo ed è considerato un “fossile vivente”, perché furono trovati suoi resti databili a 270 milioni di anni fa, durante il Paleozoico, quando i rettili cominciarono a colonizzare la Pangèa.
Conosciuto in giapponese con il nome di Ichou o Icho, le vengono attribuite molte proprietà benefiche e curative come antiossidante, per l’insufficienza venosa e la circolazione sanguigna; aiuta chi soffre di allergie a migliorare le prestazioni cerebrali e la memoria. Mentre ci avviciniamo al Casino Barberini, l’edificio principale della villa che dagli anni 30 è sede dell’Istituto Italiano di Studi Germanici, alla vista desolante delle Palme canarians e delle Jubaea chilensis distrutte dal ‘punteruolo rosso’ (Rynchophorus ferrugineus Olivier), il nostro scienziato degli alberi ha un sussulto di rabbia. «A giugno 2008 venni a conoscenza per la prima volta degli effetti devastanti prodotti dalle larve del punteruolo rosso sulle palme. I veri responsabili della morte delle centinaia di migliaia di palme nel nostro Paese – accusa Palumbo – sono i governi succedutisi in questi anni, capaci solo di scaricare sui proprietari i costi proibitivi dello smaltimento delle piante infette, fatto da ditte specializzate a circa due mila euro a pianta».
Autunno, la natura va in letargo ma i mali del patrimonio arboreo romano rimangono sempre svegli. Se intanto per ora abbiamo perso circa il 70 % delle palme, un tempo regine incontrastate dei giardini romani, un altro problema della capitale risulta essere la caduta improvvisa di secolari pini domestici, ai primi venti forti. «Ci sono strade dove sono rimasti solo i ceppi – continua Antimo Palumbo -. Vogliamo conoscere, con tanto di perizie tecnico-agronomiche, le ragioni di ogni abbattimento e chiediamo la sostituzione di ogni albero abbattuto». Se il sospetto, non infondato, è che i crolli dei pini secolari siano causati dal taglio delle radici per lavori di scavo, o sbancamenti a ridosso delle piante, di tanti altri non se ne comprendono proprio le ragioni. A meno di non adottare il detto: ‘Prevenire è sempre meglio che curare’.
Info: Villa Sciarra, via Mura Gianicolesi 11, Roma, tel. 06 0608
Testo/Maurizio Ceccaioni – Foto/Maurizio Ceccaioni e Google Immagini