Al termine di un complesso iter burocratico internazionale (e noi ci lamentiamo della burocrazia nostrana !) durato ben 8 anni, che ha visto impegnati i governi e le diplomazie nazionali succedutisi in questo arco di tempo, finalmente è giunta la buona notizia tanto attesa. Nella sua riunione svoltasi ai primi di dicembre nell’isola di Jeju (Corea del Sud), il Comitato dell’Unesco ha provveduto ad inserire la pizza napoletana – o per la precisione l’arte tradizionale del pizzaiolo napoletano – nella lista dei Patrimoni culturali intangibili dell’Umanità. Con questa come unica proposta italiana per l’anno 2017, l’elenco dei beni nazionali riconosciuti dall’organismo dell’Onu per la cultura e l’educazione nel nostro paese sale a ben 58, un vero record assoluto (ma con la Cina a tallonarci con il fiato sul collo di una sola lunghezza), di cui 9 in Campania. La pizza diventa così il 7° tesoro italiano immateriale Unesco, il terzo in campo alimentare assieme alla dieta mediterranea ed alla vite ad alberello di Pantelleria. Un ottimo auspicio alla vigilia del 2018, proclamato Anno internazionale del cibo italiano nel modo.
La motivazione ufficiale non lascia dubbi su un patrimonio storico di conoscenze artigianali tramandato di padre in figlio, su una scelta oculata di prodotti genuini di elevata qualità, elementi identitari della cultura specifica del popolo napoletano, riconoscendo che la creatività alimentare della città partenopea risulta unica al mondo. “Il know-how culinario legato alla produzione della pizza – recita il comunicato – che comprende gesti, canzoni, espressioni visuali, gergo locale, capacità di maneggiare l’impasto, esibirsi e condividere, costituisce un indiscutibile patrimonio culturale. I pizzaioli e i loro ospiti si impegnano in un rito sociale, dove il bancone e il forno fungono da palcoscenico durante il processo di produzione della pizza. Ciò si verifica in un’atmosfera conviviale, che comporta scambi costanti con gli ospiti. Partendo dai quartieri poveri di Napoli, la tradizione culinaria si è profondamente radicata nella vita quotidiana della comunità. Infatti per molti giovani praticanti diventare pizzaiolo rappresenta anche un modo per evitare la marginalità sociale”. La richiesta italiana godeva dell’appoggio di ben due milioni di firme, sottoscritte in oltre 100 nazioni.
Come tutti sappiamo, la pizza consiste in un disco di pasta morbida e sottile, realizzato con impasto di pane a base di fatina di grano tenero 00 lievitato a lungo e steso a mano a formare uno strato sottile al centro con bordi rialzati, condito con olio, pomodoro, mozzarella e altri ingredienti a volontà; deve essere cotta per non oltre un minuto in un forno a legna parecchio caldo (450°C), cucinata e mangiata immediatamente fin tanto che è calda. Nacque all’inizio del 1700 e fino a quasi la metà del secolo scorso rimase confinata come specialità gastronomica della cucina povera di Napoli e dintorni, per esplodere poi in breve tempo, grazie alla sue specifiche peculiarità (pasto completo, semplice, rapido ed economico), in tutto il mondo o quasi, spesso con ogni tipo di contraffazione dei suoi componenti essenziali, dalle mozzarelle congelate o sostituite con formaggi locali improponibili, dalla farina di infima qualità fino all’uso di pomodori cinesi (al posto dei Sanmarzano). Per non parlare di soluzioni fantasiose quanto oscene, come la pizza all’ananas e via dicendo.
Si tratta invece del piatto italiano – pardon, napoletano – più noto e diffuso nel mondo, ancor più degli spaghetti, un primo gradino di globalizzazione alimentare, uno dei maggiori e più tangibili testimoni dell’eccellenza culinaria del Made in Italy. Eppure se parlate con un americano vi dirà che la pizza è cosa loro (così come anche Cosa Nostra), in quanto in quella nazione costituisce il piatto più a portata di mano. Sarà per l’alto numero di italiani migrati in passato in quella nazione, portandosi dietro tra l’altro anche la pizza ? Gli Usa guidano infatti la classifica specifica dei consumi mondiali: 13 kg a persona all’anno, contro il 7,6 degli italiani, relegati al secondo posto ma con una distanza incolmabile. E non a caso i due giganti della ristorazione basati sulla pizza sono statunitensi: Pizza Hut, nata nel 1958 a Dallas nel Texas con oggi 16 mila locali in oltre 100 nazioni diverse, e Domino’s Pizza fondata nel 1960 nel Michigan con 11 mila locali in 70 nazioni. Quest’ultima dal 2015 ha avuto la sfrontatezza di aprire 8 ristoranti tra Milano e Bergamo, forse per rispondere ad alcuni grandi pizzaioli italiani che hanno aperto bottega negli Usa. Ma su buon gusto e qualità non c’è proprio competizione.
Secondo i dati di Coldiretti la pizza solo in Italia vale, dal punto di vista economico, qualcosa come 200 mila posti di lavoro in 63 mila esercizi, con una produzione di 8 milioni di esemplari al giorno, cioè 192 milioni al mese e 2,3 miliardi all’anno, per un giro d’affari nel 2016 di 12 miliardi di euro, 60 miliardi nel mondo, su un export di cibi italiani pari a 38 miliardi di euro; da tener presente che nel nostro paese gli impiegati in agricoltura non superano il 3 % della popolazione attiva. La catena americana Pizza Hut risulta presente nella penisola con il marchio Spizzico nei 200 ristoranti gestiti da Autogrill. Nessuno al momento è in grado di dire se questo importante riconoscimento potrà avere delle ricadute pratiche, ed in caso positivo quali. Tuttavia, in un mondo di sfacciate sofisticazioni dei migliori prodotti alimentari del Made in Italy, un punto fermo ed autorevole come questo non può fare che bene.
Basta consultare il menù di qualsivoglia pizzeria per constatare quante diverse varietà ne esistono: a quelle classiche della tradizione partenopea si possono infatti aggiungere tutte quelle suggerite dall’estro e dalla fantasia dei tanti pizzaiuoli. La più famosa e la più consumata rimane però sempre la Pizza Margherita, a cui spetta anche il titolo di più semplice tra tutte, dedicata al nome della regina Margherita di Savoia. Nell’estate del 1889 tale Raffaele Esposito della Pizzeria Brandi venne convocato nella reggia di Capodimonte, residenza reale, per realizzare alcuni nuovi tipi di pizza alla sovrana, da cuocere in un forno di campagna tuttora presente nel Real Bosco. Il pizzaiolo ne preparò tre tipi diversi. La regina finì per preferire quella realizzata con solo pomodoro, mozzarella e basilico, da allora conosciuta in tutto il mondo con il suo nome.
Info: Associazione Verace Pizza Napoletana ong, via di Capodimonte 19/A, Napoli,
www.pizzanapoletana.org – info@pizzanapoletana.org – tel. 081 420 12 05
www.pizzanelmondo.org –
Testo/Giulio Badini – Google Immagini