La stragrande maggioranza di quanti visitano l’Egitto limitano il proprio itinerario alla capitale e alla valle del Nilo, dove per altro si concentrano i maggiori tesori della civiltà egizia. Ma in Egitto, grande tre volte l’Italia, il 90 per cento del territorio inizia invece proprio oltre le sponde coltivate del grande fiume; peccato si tratti di un terreno arido e inospitale, estremo lembo orientale del Sahara, ripartito nel montuoso deserto orientale ad est, fino alle sponde del Mar Rosso, e in un’enorme distesa di dune ad occidente fino ai confini con la Libia e oltre, punteggiata da qualche isolata oasi, non a caso chiamata il Grande Mare di Sabbia. Quest’ultimo costituisce uno dei deserti più estesi e meno frequentati di tutto il Sahara, battuto dal violento vento khamsin e dalle sue micidiali tempeste di sabbia, evitato anche dalle carovane per la cronica penuria d’acqua. Fino al 1920-30, all’avvento dei mezzi meccanici, diversi tratti risultavano ancora inesplorati e ancora oggi sono ben pochi ad avventurarsi in questo mondo minerale: solo durante l’ultima guerra mondiale italiani e tedeschi da una parte, inglesi ed egiziani dall’altra, lo attraversarono più volte per infiltrarsi dietro le linee nemiche, come descritto nel romanzo e nel film Il paziente inglese (vincitore nel 1996 di ben 9 Oscar). Soltanto di recente il turismo ha scoperto il fascino e le attrattive di questa regione, lunga 600 chilometri e larga poco meno: enormi distese di dune policrome alte fino a 150 metri, non solcate da alcuna strada o pista, una fitta rete di corridoi interdunali, vaste depressioni che scendono sotto il livello del mare, strumenti litici, incisioni e pitture preistoriche risalenti all’epoca in cui il Sahara era verde e popolato da uomini ed animali, templi, fortezze e tombe dipinte di epoca egizia, tolemaica, romana e copta, resti fossili, enormi laghi salati, le incredibili formazioni calcaree di un bianco accecante curiosamente erose nel Deserto Bianco, il Sahra al-Beida, e poi l’inimmaginabile prosperità di una serie di oasi con esuberanti palmeti, case di fango, innumerevoli sorgenti minerali calde e fredde e consistenti laghi.
Il Deserto Occidentale, o Gran Mare di Sabbia, che da solo occupa i due terzi del territorio egiziano, si estende dall’oasi di Siwa a nord fino ai massicci del Gilf el Kebir e del Jebel el Uweinat a sud, ai confini con Sudan e Libia, mentre ad ovest prosegue con continuità nel deserto libico fino all’oasi di Cufra. Si tratta di una delle aree più aride del pianeta. Infatti se il Sahara in generale riceve in media 100 millimetri di pioggia all’anno, qui la media raggiunge appena i 5 millimetri, giustificando pienamente l’assenza di insediamenti umani anche nomadi e temporanei, nonché di piste di attraversamento per l’assenza di punti di rifornimento idrico. Unici punti di vita sono le grandi oasi, situate sui margini orientali, di Siwa, Bahariya, Farafra, Dakhla e Kharga, già abitate fin dagli albori della storia dell’uomo a partire da 10 mila anni fa; oasi fondamentali per consentire ancora oggi la presenza umana in questo tratto marginale di deserto. Già lo storico e geografo greco Erodoto le definì “isole benedette” per la loro importante funzione di punti nevralgici lungo le rotte commerciali tra l’Africa interna e il Mediterraneo.
Come tutti i luoghi poco noti e frequentati, anche il Deserto Occidentale pullula di leggende e di storie misteriose, a cominciare dalla mitica oasi di Zerzura, citata da cronache arabe medievali e cercata inutilmente da generazioni di esploratori (a Londra, nel secolo scorso, esisteva anche un apposito club); passando alla silica glass, ciottoli di vetro verdastro composti da silice purissima rinvenibili in una limitata area del Gran Mare di Sabbia, che si sarebbero formati per fusione della sabbia dovuta all’elevato calore prodotto dall’impatto di un meteorite avvenuto 26 milioni di anni fa; per finire con l’armata scomparsa di Cambise. Ma in quest’ultimo caso non si tratta affatto di leggenda, bensì di storia anche se lontana, vecchia di oltre 2500 anni, tramandataci dal maggior storico dell’antichità, il greco Erodoto.
Nel 525 l’esercito persiano guidato da Cambise II, figlio di Ciro il Grande fondatore della dinastia reale degli Achemenidi, muove da Susa alla conquista dell’Egitto, potenza decadente travagliata da una serie di guerre esterne e di lotte intestine, a cominciare dal dominio esercitato per un secolo da parte dei confinanti meridionali della Nubia, la XXV dinastia dei cosiddetti faraoni neri. Dopo la vittoriosa battaglia di Pelusio sul delta, dove l’esercito egiziano viene letteralmente disintegrato (ben 50 mila tra morti, feriti e prigionieri, su 65 mila effettivi; gli invasori solo 7 mila perdite su 80 mila militi), i persiani conquistarono Menfi, dove fecero prigionieri il giovanissimo faraone Psammatico III (ultimo esponente della XXVI dinastia), e il matematico Pitagora, quindi dilagarono senza incontrare alcun ostacolo lungo la valle del Nilo fino alla capitale Tebe. Come tutti i potenti di ogni epoca Cambise non era affatto uno stinco di santo (sappiamo per certo che fece uccidere la moglie egiziana, il proprio fratello e scuoiare vivo un consigliere che aveva osato contraddirlo), era molto permaloso e aveva un pessimo carattere, e per giunta non era neppure un buon stratega. Era a capo dell’impero persiano perché figlio di papà e vinceva per colpa della debolezza altrui e per la potenza economica che aveva alle spalle, per tante popolazioni confinanti che fiutarono l’aria e saltarono in tempo sul carro del vincitore, e infine per un esercito capace di valorizzare le peculiarità militari delle diverse etnie che lo componevano. Unico baluardo egiziano rimaneva una guarnigione asserragliata nell’oasi di Siwa, sede dell’importante tempio del dio Ammone e dell’ oracolo famoso in tutto il Mediterraneo, nell’estremo nord-ovest in mezzo al deserto, inoffensiva ma che al tempo stesso, per la ricchezza di acqua e agricoltura, avrebbe potuto resistere anche a lunghi assedi. Una volta giunto a Tebe e dopo essersi autoproclamato novello faraone Cambise, che si riteneva invincibile, nutriva ulteriori ambizioni di conquista che lo portarono a commettere diversi fatali errori politici, diplomatici e militari, conclusi tutti con altrettanti fallimenti.
Per prima cosa chiese agli alleati Fenici di allestire una flotta per andare alla conquista di Cartagine, allora potenza emergente nel Mediterraneo occidentale, senza considerare che Cartagine era una colonia fenicia e nel sangue dei suoi abitanti scorreva sangue fenicio. E i Fenici, che non amavano le guerre fratricide, risposero picche. A quel punto divise in due il suo esercito. Un’armata di 30 mila uomini scese con lui a sud, lungo il corso del Nilo, per conquistare la Nubia, la regione da cui provenivano parecchie delle ricchezze egiziane, e magari spingersi fino alla terra dei leggendari Etiopi. In realtà, una volta giunta tra le capitali nubiane di Napata e di Meroe la colonna venne falcidiata da una violenta epidemia di malaria e di dissenteria (forse quest’ultima antesignana di quella maledizione del faraone che colpisce i turisti moderni), tanto che lo stesso comandante si salvò a stento e dovette fare ritorno in fretta ed a mani vuote.
Cambise poteva avere tante buone ragioni per conquistare Siwa: era molto ricca perché caposaldo del traffico commerciale carovaniero tra l’Africa nera e il Mediterraneo, nonchè di quello costiero est-ovest; la presenza di una invitta guarnigione faraonica inficiava in parte la sua conquista dell’Egitto; il clero del tempio di Ammone era depositario di un potere teocratico che infastidiva il novello conquistatore, così come aveva creato non pochi problemi ai suoi predecessori. E infine l’oracolo aveva predetto per lui una morte imminente. Come ci testimonia Erodoto, poi confermato anche dallo storico Plutarco, Cambise destinò il resto del suo esercito – un’armata di 50 mila soldati – alla conquista di Siwa. Ora, dal punto di vista logistico, un conto è muovere un esercito lungo il Nilo, con terreno pianeggiante, acqua cibo e ombra a portata di mano, un conto è muovere un esercito quasi doppio in pieno deserto, con montagne e dune da scavalcare sotto un sole da 50° C di giorno e gelido di notte. Inoltre un esercito di 50 mila soldati va quasi raddoppiato se consideriamo tutto il personale di servizio ai militari, dai cuochi ai fabbri, dagli stallieri alle prostitute, con una massa enorme di materiale (armi, tende, viveri, acqua, fieno, legname e quant’altro per persone ed animali, il tutto trasportato su carri trainati da cavalli e buoi, animali del tutto inadatti al deserto). Un serpentone umano lungo parecchi chilometri. Logica e geografia vorrebbero che un attacco a Siwa dovesse partire dal punto più vicino possibile, vale a dire da Menfi sul Nilo verso ovest, oppure sulla costa da Marsa Matruh verso sud. Ma l’esercito era concentrato a Tebe e, per fare in fretta, Cambise decise di farlo partire da qui, pensando di cogliere in tal modo di sorpresa la guarnigione egiziana che certo non si sarebbe aspettata un attacco da sud. Ulteriore errore fatale, perché Tebe e Siwa distano 880 km in linea d’aria, quasi il doppio a terra su un terreno di pietre, rocce e dune da scavalcare in continuazione, impresa impossibile per qualsiasi esercito.
Come ci racconta Erodoto, che visitò i luoghi circa 80 anni dopo, la colonna persiana (in realtà una babele di popoli tra persiani, alleati e mercenari di varia provenienza) partì da Tebe verso la fine dell’inverno del 525 a.C. (altro errore climatico, per via del Khamsin che spira in primavera per 50 giorni con terribili tempeste di sabbia capaci di modificare completamente la geografia dei luoghi) e dopo 8 giorni di cammino e 180 km di percorso raggiunse l’oasi di Kharga, sostandovi per riposarsi. A quel punto ancora logica e geografia vorrebbero che puntasse a nord-ovest, seguendo la pista carovaniera per raggiungere in successione le oasi di Dakhla, Farafra e Baharya (nonchè quelle minori intermedie), dove sostare per ritemprarsi e fare rifornimenti di acqua, viveri e legname. Invece i comandanti, per insipienza o perché traditi dalle guide indigene (gli inaffidabili Garamanti, signori del commercio transahariano e progenitori dei Tuareg di oggi), si spinsero ad ovest verso le ultimi propaggini rocciose dell’altopiano del Gilf Kebir e dell’oceano di dune del Grande Mare di Sabbia, nel pieno del più inospitale dei deserti che avrebbe dovuto essere attraversato integralmente da sud a nord, commettendo l’ultimo tragico errore. A Kharga cessano le informazioni certe e possiamo soltanto immaginare cosa possa essere accaduto. Dopo giorni e giorni di cammino su un terreno impossibile, sotto una terribile calura diurna e nottate gelide, persone ed animali erano fisicamente distrutti e demoralizzati, mentre acqua e viveri erano ormai agli sgoccioli e Siwa ancora assai lontana. I comandanti, vista la tragica situazione, erano incerti sul da farsi, cioè se proseguire oppure tornare indietro; in ogni caso si sarebbe trattato di morte certa per tutti. Mentre stavano discutendo fu il fato a decidere per loro, sotto forma di una terribile tempesta di sabbia che spense il sole per diversi giorni, facendo precipitare tutto nella più oscura delle tenebre. In breve il calore disidratò i corpi, provocando un’arsura irresistibile e insaziabile, la mancata visibilità annebbiò le menti, mentre la polvere rendeva ciechi gli occhi e soffocava la gola. Uomini ed animali caddero ad uno ad uno come birilli, stroncati da sincope cardiocircolatorie. Quando il khamsin cessò, una spessa coltre di sabbia ricopriva il teatro della tragedia, nascondendone ogni pur minima traccia; e così fecero tutte le tempeste successive.
Da allora, e per 25 secoli, una fitta schiera di cercatori di tesori, curiosi e avventurieri di ogni risma e poi esploratori e archeologi hanno cercato inutilmente nel Deserto occidentale e con tutti i mezzi possibili, dai sorvoli a bassa quota alle foto satellitari, fino ai metal detector, le tracce dell’armata scomparsa, ma senza alcun esito reale. Ogni tanto qualcuno annuncia trionfalmente una scoperta, ma alla resa dei conti non si è mai trattato fino ad ora di reperti significativi, oppure compaiono ipotesi strampalate. Tutti sappiamo che basta il movimento di una delle tante dune mobili del Gran Mare di Sabbia per fare affiorare un reperto, e individuare di conseguenza in un relativo breve raggio l’intero esercito. Ma questo non è finora accaduto, o quanto meno non è mai stato osservato. Unica scoperta forse rilevante quella compiuta da geologi egiziani nella località di El-Bahr-El-Aazam, ad 85 km a sud-est di Siwa, di una serie di alumat (ammassi di pietre creati dai nomadi per indicare il percorso nel deserto) orientati verso l’oasi. Potrebbero essere stati segnali di un percorso tracciato dagli esploratori in avanscoperta per l’esercito persiano, ma anche creati da chiunque altro. Cambise, poco amato dagli egiziani per la sua empietà e ormai privo di soldati dell’esercito originario, nel 525 a.C. decise di fare ritorno in patria. Arrivato in Siria, si avverò la profezia dell’oracolo di Ammone: morì improvvisamente per cause sconosciute. Siwa si era presa gioco di lui per ben due volte.
Testo/Giulio Badini- Foto/Giulio Badini e Google Immagini