Irreale, lo sbuffo di fumo compatto, acre e denso che sprigiona energia sul ferro arrugginito. Uno spruzzo violento e improvviso di solida nebbia grigia sulla paglia riarsa dei prati settembrini. Nella cabina del malconcio mastodonte d’acciaio, residuo di epoche lontane, un uomo nero come il carbone getta carbone a palate nella fiamma viva della caldaia. L’odore di olio bruciato si confonde con l’aspra essenza del ferro che striscia sul ferro, nelle atmosfere umide della bruma che accarezza l’altipiano. Osservo la sgangherata locomotiva Ansaldo 442.54 – classe 1938 – sfidare il tempo e lo spazio nel tentativo di trascinare un improbabile convoglio di vagoni in legno antico, su binari inventati nell’epoca delle grandi sfide di fine Ottocento. Il mostro d’acciaio e fumo che stride avanzando lento, rubando centimetro su centimetro alla gravità, mi riporta negli occhi immagini sfumate. Dove solo un ricordo appare nitido, presente: i treni a vapore.
Il nonno mi portava spesso alla Stazione, dove arrivavano le vecchie locomotive nere dall’enorme camino sbuffante. Per lui, nato nel tempo dei calessi e delle lanterne a petrolio, probabilmente erano, insieme ad aerei, automobili, telefoni e altre diavolerie, la rappresentazione fisica del concetto di Futuro. Quando, lente, con un urlo profondo si mettevano in moto, parevano compiere uno sforzo titanico per liberarsi da invisibili catene. Una dimostrazione di forza bruta. Ai miei occhi di bambino uno spettacolo entusiasmante. Mi divertivo a dare al fumo, denso e bianchissimo, forme concrete. Stavamo appoggiati per ore alle palizzate di cemento che delimitavano i binari. Senza parlare.
Il treno italiano d’Eritrea
Non è una scena di cinematografia verista anni cinquanta, né la rievocazione di un evento storico, quella che sto vivendo, ma la realizzazione di un sogno. Desiderato per esorcizzare lunghi decenni di guerra devastanti per l’Eritrea, fantasticato paradiso tropicale del Corno d’Africa nell’immaginazione dei nostri nonni, tragico scenario di guerre fratricide nelle cronache del recente passato, oggi teso ad insegue un’utopia di tranquillità e normalità, per quanto può essere “normale” la vita nel cuore del continente africano. Allora anche questa vecchia locomotiva, un tempo fiero simbolo del colonialismo italiano, treno fantasma che viaggia su binari a scartamento ridotto del XIX secolo, condotto e governato come fosse la loro creatura da una ciurma irreale di vecchi e fieri pensionati, diventa il motore per riagguantare un futuro che nella realtà sembra ancora lontano, irraggiungibile. Quella che superando un dislivello di oltre 2400 metri collega Ghinda, sull’altipiano eritreo nei pressi di Asmara, all’afa opprimente di Massawa, porto affacciato sulle acque dense di sale e umido del Mar Rosso, non è una linea ferroviaria qualunque, ma un sogno, una magia, un’apparizione che solo chi è abituato alle irrealtà dell’Africa può pensare di aver visto. Un’opera enorme e insensata, costruita da alpini e bersaglieri tra il 1897 e il 1911, quando l’Eritrea era la “colonia primigenia” di un impero da opera buffa e questo progetto era definito dalla stampa internazionale, anche la più avversa e ostile, “una stupefacente prodezza”.
Sui 117 chilometri del tracciato per salire dal Mar Rosso alle alte quote dell’altopiano di Asmara, i progettisti italiani realizzarono 64 ponti e viadotti, scavando 30 gallerie. I soldati piemontesi, mentre buttavano giù traversine imprecando, si convinsero che l’impresa doveva arrivare a termine “ca costa l’òn ca costa” (costi quel che costi). Quel motto, simbolo diventato immortale della caparbietà italiana, campeggia ancora nel cemento scrostato del ponte di Dogali, tragico palcoscenico, in un lontano gennaio del 1887, di una delle tante battaglie perse dal nostro esercito d’invasione. Il treno inventato dalla fantasia italiana continuò a trasportare uomini e merci fino al 1975, quando l’ultima locomotiva Ansaldo, proprio quella su cui sto viaggiando in questo autunno 2007, si fermò in una nuvola di fumo. Durante i trent’anni di guerra per l’indipendenza dell’Eritrea, la ferrovia si è trasformata in una miniera di ferro per le parti in lotta, ed è stata smantellata pezzo per pezzo.
Il sogno del presidente
Solo un altro visionario poteva immaginare di andare alla ricerca di binari e traversine, sparse per le trincee disseminate ovunque su un territorio devastato da una delle tante guerre dimenticate d’Africa. Ma per l’attuale presidente dell’Eritrea Isayas Afeworki, la ferrovia era prima di tutto un ricordo dell’infanzia. «Ogni volta che potevo, scappavo di casa la mattina e mi infilavo sul treno per Massawa. Passavo una giornata a riempirmi la faccia e i vestiti di fumo e tornavo a casa felice, anche se i miei mi rimproveravano!» Subito dopo un simbolo di unità nazionale e indipendenza. Nel 1995 ai contadini e ai reduci della guerra è stato semplicemente ordinato di raccogliere le rotaie e ripiazzarle al loro posto. Facile a dirsi, assai più difficile , al limite dell’impossibile, il riuscire a farlo. Ma per rimettere in moto la vecchia Ansaldo, classe 1938, c’era una sola soluzione: richiamare in servizio i ferrovieri “residuati” dell’epoca italiana, età media 70 anni, nomignoli mezzi italiani e mezzi eritrei. Che si sono rimessi al lavoro con giovanile entusiasmo ed hanno fatto ripartire il mostro d’acciaio proveniente da un’altra epoca. E quello che nessuno avrebbe mai pensato potesse succedere, è successo: nel cuore d’Africa un treno fantasma viaggia su binari a scartamento ridotto dell’Ottocento. Lo conduce una ciurma irreale di vecchi e fieri pensionati. Lo hanno costruito gli italiani. Centodieci anni fa.
Malinconico angolo d’Italia
Cinema Impero, Caffè del Corso, Albergo Torino, Grand Hotel Italia… le trovi ad ogni angolo di strada, le tracce della nostra improbabile avventura coloniale ! Confuse tra odori, colori e atmosfere dell’Africa più autentica, multietnica, nei mercati ingombri di frutta tropicale, cereali sconosciuti e straccetti cinesi a pochi soldi. Spesso ancora troppi per la misera economia domestica di un popolo devastato da una guerra fratricida. Capace di riciclare, per necessità, qualsiasi cosa: un carro armato, un bidone di petrolio, vecchi chiodi e binari ferroviari, nel caos di mille botteghe del bazar diventano badili, carriole, secchi, coperchi, coltelli, forchette e utensili di ogni tipo. Mentre cammino in questa babele di designer improvvisati, che si destreggiano tra un colpo di maglio e la decantazione delle proprie creazioni a gruppetti di donne curiose e colorate, spesso mi sento chiamare «Italiano? Come va?» da qualche vecchio volto eritreo incorniciato da solenni barbe candide.
Parlando con la gente, seduto ad osservare il tramonto nelle caffetterie lungo il viale principale di Asmara, o nelle atmosfere mediterranee dei bar sotto i portici a Massawa, mi sembra di intuire come noi italiani siamo riusciti, almeno qui in Eritrea, a lasciare un ricordo positivo in quanti hanno vissuto la dominazione coloniale dei primi decenni del ‘900. Perché gli italiani, più che soldati, erano contadini, operai, e hanno ricreato anche qui alcuni dei tanti, piccoli “miracoli” che hanno sempre distinto i nostri emigranti.
E molti eritrei ancora li ricordano, gli italiani. Con una punta di malinconia.
La magia del Meskel
È il 27 settembre, giorno del Meskel, la più importante e suggestiva festività della chiesa copta eritrea, che esplode la vera anima africana di questo paese. Mischiando insieme la sacralità cristiana con l’animismo e i riti scaramantici della stregoneria. Fin dalla sera precednte, bambini e ragazzi hanno acceso piccoli fuochi nelle strade; il gioco è saltare sopra le fiamme, ingenua sfida al futuro. Dalle prime luci dell’alba, una marea di persone converge verso il grande piazzale dove sono attese le massime autorità religiose del paese. Confuso tra mille visi, rimango affascinato dal candore dei vestiti delle donne, che incorniciano sguardi profondi. Una mobile onda bianca esaltata da occhi scuri, e mani che seguono, in perfetta armonia, gesti e movenze misteriose. Scandite dai canti dei preti abbigliati con sgargianti tonache verdi, rosse e dorate. Si distinguono per gli immancabili ombrelli dai colori forti e luminosi.
A metà mattina la folla risulta immensa, quando il patriarca, massima autorità della confessione copta, attraversata la massa di uomini che si apre solida al suo passaggio, raggiunge e accende con una torcia la grande piramide di legna al centro della piazza: è il Damerà. Mentre il fuoco lo divora, tutti pregano. A seconda della direzione in cui la pira cadrà, si concretizzeranno speranze o timori per il futuro. Se il fuoco precipiterà verso oriente ci si aspetta un anno positivo, schiantandosi nella direzione contraria porterà invece sciagure. Mentre la catasta ondeggia, ormai divorata dalle fiamme, nessuno respira, poi, lentamente ma inesorabilmente, la massa fiammeggiante frana verso est… anche il prossimo sarà un buon anno!
Massawa, capolinea d’Oriente
Nonostante l’ottobre incipiente, il sole batte duro sulla polvere che come un velo copre la strada principale. Sincretismo perfetto di suggestioni orientali e accenni, ormai passati, di modernità, case un tempo eleganti sfoggiano residui di decori capaci solo di evocare un’epoca che, nella solitudine dell’oggi, è facile dubitare possa essere mai esistita. Punto d’approdo di portoghesi, ottomani, egiziani, alla fine del XIX secolo divenne per sette anni la capitale del sogno coloniale italiano, col beneplacito della Corona inglese la quale, favorendo le fantasie “imperiali” dei Savoia, intendeva ostacolare l’espansione francese sulle coste orientali africane e, al tempo stesso, bloccare le insurrezioni degli indipendentisti sudanesi di Muhammad Ahmad, il leggendario “Mahdi”. A immaginarla dall’alto, sembra un’insolita protuberanza della costa sabbiosa, circondata dal mare; nella realtà, è composta da due isole unite tra loro e alla terraferma dalla linea stretta di un terrapieno occupato dall’unica strada che la collega al mondo. Da sempre porto principale dell’Abissinia, dopo la ricostruzione, nel 1921, a seguito di un forte terremoto, diventò il punto focale di smistamento verso l’Italia e l’Europa di tutte le merci provenienti dall’Africa Centrale.
La città, anche grazie ai visionari architetti italiani, divenne un piccolo gioiello, perfetta comunione di linee essenziali suggerite dalla moderna ingegneria fascista e complesse decorazioni arabeggianti, esaltate da colonne, ricami di pietra, bifore e trifore che, riflesse sull’acqua, in alcuni scorci ricordano i grandi palazzi veneziani. La devastante guerra fratricida che per trent’anni, dal 1961 al 1990, ha contrapposto Etiopia ed Eritrea, è riuscita a distrugger, insieme a gran parte della città, anche la sua anima e le sue energie. Dopo quasi vent’anni dalla fine delle distruzioni, Massawa appare ancora ferita a morte. Boccheggiante. Intrisa di macerie fisiche, che si materializzano nei muri sventrati di palazzi un tempo sontuosi. E ideologiche, rappresentate da tre enormi carri armati beffardamente trasformati in “arredo urbano”… i loro cannoni spruzzano acqua in una grande fontana al centro del boulevard principale della “città nuova”.
Seduto all’ombra, sotto i portici antichi dove qualche bar ha riaperto, osservo un’umanità immobile. Donne avvolte dalle sgargianti tele che solo le africane sanno accoppiare, creando un delirante ma fascinoso patchwork di colori, contrastano con le figure nere e ostili delle musulmane. Su logori tavolini, uomini di ogni età consumano il tempo giocando a domino, moderna variante di antichi giochi africani. Confusa con l’afa umida e bollente dell’aria, una cappa di tristezza sembra avvolgere ogni struttura, ogni gesto, ogni pensiero. Pare tutto in attesa. Di un futuro che forse non arriverà più.
Dahlak, perle sconosciute
Lascio Massawa a bordo di un sambuco. Queste imbarcazioni veloci e leggere, nate dall’ingegno di antichi pescatori, sono diventate tragicamente famose soprattutto perchè usate dai pirati somali per gli abbordaggi sottocosta, prima dell’avvento dei gommoni fuoribordo. Ma sono, ancora, l’unico patrimonio per molte famiglie che, da un mare ricco e pescoso, riescono a trarre sostentamento. A pochi chilometri dalla costa eritrea, esiste un piccolo, autentico paradiso dimenticato. Leggenda per navigatori e marinai, le Dahlak sono gioielli buttati a casaccio nell’acqua smeraldo del Mar Rosso meridionale. Con oltre tremila specie viventi diverse, un quinto delle quali endemiche ed esclusive di queste acque, tra cui 350 diversi tipi di corallo, rappresentano uno degli ecosistemi più variegati del pianeta, superato solo dall’Amazzonia. I grandi “sacerdoti” degli oceani, da Costeau a Quilici, lo definiscono come il mare più bello del mondo.
Le barriere coralline di questa zona, ambite da ogni appassionato di subacquea, rappresentano uno straordinario ecomuseo vivente. In questo contesto, l’arcipelago delle Dahlak, 209 tra isole, atolli e semplici scogli, rappresenta un unicum che è riuscito finora a conservarsi pressochè intatto, nonostante alcune devastazioni causate dal periodo bellico, durante il quale alcune delle isole principali sono state usate come basi militari. Quasi assente la presenza umana, se si esclude qualche famiglia di etnia Afar presente in quattro isole; le altre sono pezzi di deserto lanciati come briciole nel mare, caratterizzati da banchi di madrepore. Sulla superficie piatta nessuna vegetazione, soltanto qualche lucertola e milioni di nidi di uccelli. Straordinaria, invece, la vita appena sotto il pelo dell’acqua: un’eccezionale confusione di oltre mille varietà di pesci sui bassi fondali dove spiccano enormi ventagli di coralli, gorgonie ed enormi tridacne giganti, le più grandi tra le conchiglie, confuse tra praterie subacquee di sargassi. È in una di queste isole, dove ho deciso di passare la notte, all’addiaccio nel caldo autunno tropicale, che vivo un’esperienza straordinaria: nel buio della notte, il mare si accende come un’immensa lampada al neon, a causa della bioluminescenza provocata da miliardi di microrganismi planctonici. Accarezzato dall’aria finalmente fresca, dopo una giornata torrida, rimango per ore a giocare con le cascate di luce dell’acqua che mi scivola tra le mani, nel più straordinario acquario naturale del mondo.
Testo/foto Michele Dalla Palma