Fa freddo sulle pendici del vulcano Ampato. Neve e vento le sferzano la pelle di bambina, i piedi nei sandali sono congelati. Eppure Juanita va avanti. Non ha ancora 14 anni, è lei la prescelta, per candore e per bellezza: al termine della sua ascesa sulla vetta della cordigliera andina, ad una altezza superiore ai 6.200 metri, sarà sacrificata agli dei per placare le ire del vulcano in eruzione. Ha freddo e paura, una sensazione placata dalla miscela che la stordisce e le fa sentire meno male: la chicha, una bevanda fatta di mais fermentato, e le foglie di coca. Verrà uccisa con un colpo al viso, per essere sepolta come una piccola regina in una conca. Accanto a lei statue, cibo e altre offerte degli Incas agli dei.
Juanita rappresenta solo la prima dei tanti bambini sepolti sulle pendici dei vulcani peruviani, dal monte Ampato al Misti. Il suo corpo è stato ritrovato intatto, grazie alla complicità del gelo, e oggi viene conservato al Museo Santuarios Andinos di Arequipa (www.ucsm.edu.pe/museo-santuarios-andinos). Impossibile non restare soggiogati dalla sua storia. Al museo si entra in silenzio, dopo avere lasciato ogni cosa, cellulare e macchina fotografica anzitutto, in un armadietto. Vietati scatti e flash: le precauzioni di tipo scientifico legate alla necesità di provvedere alla conservazione del corpo, congelato in una teca, si confondono per chi entra con la sacralità del luogo. Juanita non è sola: la giovane Inca sacrificata agli dei più di 500 anni fa sull’Ampato viene custodita al buio dal 1° gennaio al 30 aprile. Durante questi mesi viene esposta un’altra mummia bambina, quella di Sarita, trovata anch’essa sul vulcano.
Juanità morì tra il 1440 e il 1450. Per secoli il suo corpo è rimasto nascosto, per essere svelato solo dallo scioglimento delle nevi, durante una delle ultime eruzioni del vulcano. A scoprirla nel 1995 fu l’esploratore e antropologo statunitense Johan Reinhard, con il collega peruviano Miguel Zarate. L’involucro contenente la bambina sacrificata per placare il vulcano era all’interno di un cratere più in basso rispetto alla collocazione originaria. Era caduto a causa dello scioglimento della neve, dovuta all’eruzione di un altro vulcano vicino. Il ritrovamento accolto con grande entusiasmo dal mondo scientifico. Da allora, dopo essere stata esposta negli Stati Uniti e in Giappone ed essersi guadagnata le pagine del “Time” come una delle dieci migliori scoperte del mondo, la piccola Juanita è finalmente tornata a casa. Il perfetto stato di conservazione ha reso possibili ricerche che hanno permesso di ricostruire parte della vita degli Incas, l’alimentazione, la salute.
Ma chi arriva da lontano per fare visita a Juanita rimarrà colpito da qualcosa di più profondo delle informazioni scientifiche, dalla potenza delle religioni precolombiane e dall’aspetto più cruento di queste pratiche, qualcosa di inatteso per chi entra in Perù. Riti misteriosi e ancestrali, nonchè l’offerta dei corpi vergini dei bambini alla voracità degli dei, stordiscono chi arriva da Lima ad Arequipa, la città bianca, pensando semplicemente di cominciare ad acclimatarsi con l’altitudine andina (la città si trova a 2.335 metri sul livello del mare) e tenere a bada il soroche, il mal di montagna che colpisce indistintamente provocando vomito, nausea e mal di testa. Chi pensa di infilarsi in questo museo semplicemente per fare un giro da turista, ne uscirà profondamente cambiato. Ma non è possibile associare l’immagine di Arequipa, seconda città del Perù dopo Lima, soltanto al buio e al mistero straziante custodito dal suo importante museo. Fuori splende la città bianca, che prende il nome dagli abbaglianti muri in sillar, pietra di origine vulcanica.
Arequipa, oltre ad essere punto di partenza per località importanti come la Valle del Colca, è anche il quartiere pittoresco di Yanahuara, il belvedere di Carmen Alto sulle antiche colture a terrazzamenti della valle di Chilina, e poi plaza de Armas in centro, una delle più belle del paese, dove campeggia una fontana in bronzo coronata da un angelo con una trombetta chiamata “Tuturutu”, al momento resa invisibile dai lavori di restauro. Un centro storico diventato Patrimonio dell’Umanità riconosciuto dall’Unesco, e una città modellata dal passaggio della Compagnia di Gesù. La cattedrale ha origini seicentesche e ha subito diverse ricostruzioni a causa di terremoti ed incendi. Da non perdere la facciata in stile barocco della Casa del Moral, e soprattutto la chiesa della Compagnia di Gesù con i suoi chiostri.
Ma vale la pena di trascorrere qualche ora e trovare pace soprattutto in quella città nella città che è rappresentata dal monastero di Santa Catalina (www.santacatalina.org.pe), fondato nel 1579 e aperto al pubblico solo 48 anni fa. Una passeggiata in un mondo sospeso tra viuzze, giardini segreti e muri colorati, in un viaggio cromatico senza soluzione di continuità capace di spaziare dal rosso cupo all’azzurro intenso. All’inizio vi accedevano solo meticce e ragazze di condizioni disagiate. Poi, dopo il terremoto del 1582 che distrusse parte del monastero, entrarono anche le creole con le loro sostanziose doti. Più tardi anche le spagnole. Oggi gli sposi usano il monastero come set fotografico, ma se si presta attenzione è ancora possibile cogliere l’eco delle antiche preghiere delle seicento monache di un tempo…
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Testo/Monica Guzzi – Foto/Google Immagini