Scrivo queste righe da una stanzetta dell’unico, vero albergo di Slavutych, graziosa cittadina costruita nell’estremo nord dell’Ucraina per ospitare in gran parte gli ex abitanti di Pripyat, la “Città del futuro” evacuata nel giro di poche ore il giorno dopo il disastro di Chernobyl, la notte del 26 aprile 1986. A 40 Km dalla centrale di Chernobyl, per essere al di fuori della zona più a rischio, Slavutych oggi ospita principalmente i lavoratori della centrale che, pur essendo ormai inattiva, risulta ancora sottoposta a un attento smantellamento, almeno fino al 2085.
C’è, a Slavutych, una gran voglia di vivere: nella gentilezza degli abitanti, nella bellezza dell’atmosfera e nel gran numero di bambini che schiamazzano allegramente in strada. Sorrisi, volti e storie che, come in altre zone dell’Ucraina, convivono con il rispetto delle vittime dell’incidente del 1986 e con una forte volontà di ricominciare. Lo stesso governo Ucraino sta investendo molto nel turismo nella zona, e già ora si parla di circa 60mila visitatori ogni anno. Un turismo particolare, certo, non da spiaggia ai Caraibi, ma molto apprezzato dai viaggiatori, al quale è affidato il compito di riportare linfa vitale a un’economia locale, devastata dall’incidente del 1986. Qui, in mezzo a splendide foreste ci sono due linee principali di collegamento: il fiume Dnepr, utilizzato per i rifornimenti, e la linea Chernobyl Commuter Train, il cui treno viene oggi utilizzato soprattutto dagli operai della centrale.
Decidiamo quindi di recarci nella centrale di Chernobyl proprio muovendoci insieme ai suoi operai, in questa affascinante ferrovia che, come molte altre vestigia della Guerra fredda ancora presenti nel paese, sembra rimasta ferma agli anni ’80, con le sue strutture di metallo, altoparlanti, orologi analogici, banchine, pannelli e finestrini vecchi di decenni, ma ancora perfettamente funzionanti. Partiamo dunque, di mattina, con la ferrovia Slavutych-Semykhody dopo aver superato alcuni macchinari dal pesante fascino sovietico, di metallo pesante dove, ingabbiati in una sorta di architrave metallico, bisogna posare entrambe le mani su due sensori in grado di rilevare il livello di radiazione presente nei nostri corpi.
Dopo circa un’ora di viaggio attraverso ettari sterminati di foreste, mentre ai lati della ferrovia ad intervalli regolari vediamo tralicci della corrente ormai in disuso da tre decenni, e in lontananza qualche sporadica torre di raffreddamento, arriviamo infine alla fermata più vicina alla centrale. A mano a mano che ci avviciniamo, si vede sempre più vicino la gigantesca cupola della centrale, chiamata New Safe Confinement, larga 275 metri e alta 108. Copre il nucleo più radioattivo, già sepolto da un massiccio sarcofago di acciaio e cemento costruito a tempo di record subito dopo l’incidente del 1986, ma che da tempo ormai presentava pericolosi segni di cedimento. Oggi, gli operai a cui si deve la costruizione di quel vecchio sarcofago, sono giustamente considerati degli eroi locali, insieme a circa 600 mila liquidatori, coloro i quali sin da subito lavorarono per ripulire il più possibile la zona contaminata dall’incidente e rimuovere tonnellate di gratite e detriti. Molti di loro pagarono con la vita il loro senso del dovere.
Sotto la cupola si trova ancora oggi la famosa Zampa di elefante: una massa di materiale nucleare vivo, corium e metallo fuso. Il nocciolo centrale raggiunge una temperatura di 1000 gradi, ed emana un livello tale di radiazioni da condannare una persona in pochi minuti. Oggi sappiamo come quella massa si stia lentamente scavando la strada in basso nel terreno, verso la falda acquifera sotterranea. Se dovesse raggiungere la falda, quella massa potrebbe innescare un’esplosione radioattiva o contaminare le acque di mezza Europa. Arrivati all’interno della centrale, passiamo attraverso altri macchinari a sensori, per poi essere presi in consegna da Stanislav Shekstelo, la guida interna alla centrale che, dopo un breve briefing, ci fa indossare camici, guanti e maschere protettivi, per poi accompagnarci all’interno del reattore 3, quello chiuso 18 anni fa.
E là sotto, entriamo in un altro mondo: operai in tuta protettiva, altri in camice, ingombranti orologi analogici, telefoni a cornetta ancora attaccati alle pareti. Dalle vetrate dei corridoi, in lontananza, come fantasmi di Chernobyl si vedono ancora le vecchie torri e i macchinari della centrale. Più Shekstelo ci porta verso il centro del reattore, più attraversiamo passaggi e corridoi dalle pareti incrostate, e più l’atmosfera ci riporta ai sogni di efficienza ed alle ambizioni della vecchia Unione Sovietica. Compagno inseparabile, il dosimetro ci segnala 6 microsievert/h di media, con punte di 10 nel corridoio che porta alle vecchie turbine. Visitiamo le strutture, i corridoi, le stanze ed i laboratori, le sale di controllo. La sensazione di rivivere in pieno le atmosfere di quella tragica notte appare qui più forte e viva di quanto potrebbe mai spiegare un qualsiasi museo, libro o documentario.
Dopo qualche ora, riemergiamo da questi corridoi e laboratori con meno leggerezza d’animo di quando ci siamo entrati, ma consapevoli che l’incidente di Chernobyl fu il primo, vero nemico di un blocco comunista considerato allora invincibile. Ci vorranno ancora decenni, prima che la centrale sia completamente dismessa. Allora, forse, non sarà più il centro della vita degli abitanti di Slavutych. Ma il ricordo di quel che accadde alle ore 1,23 del 26 aprile 1986, quello non se ne andrà mai.
Testi/foto Emiliano Federico Caruso