Con i suoi 220 milioni d’abitanti, il Pakistan costituisce il 5° paese più popolato al mondo e presenta una ricchezza culturale ed etnica non indifferente. I suoi sei principali gruppi etnici – Punjabi, Pashtun, Sindhi, Saraiki, Mohajir e Beluci – rappresentano il 94% della popolazione, mentre il restante 6% appare costituito da numerose minoranze che spesso si riducono a qualche decina di migliaia di persone. Una di queste, capace secondo gli etnologi di preservare le sue credenze da 2.300 anni a questa parte e che fino alla metà del secolo scorso si attestava sui 40.000 membri, rappresenta oggi la più piccola minoranza del paese. Si tratta dell’etnia Kalash vivente isolata in mezzo alle montagne del Kafiristan ed è costituita dagli ultimi sopravvissuti dei popoli “pagani” dell’Hindu Kush, ove culminano le vette più alte dei due paesi, ad oltre 7.500 metri di altezza.
Le origini dei Kalash appaiono tuttora nebulose. L’ipotesi romantica della discendenza dai greci di Alessandro Magno, i quali nella loro marcia verso la valle dell’Indo passarono da queste montagne e vi si fermarono generando una discendenza di individui biondi con gli occhi azzurri, si scontra con l’assenza totale di tratti linguistici e culturali comuni e ciò farebbe propendere per un’altra tesi. Ultimamente gli studiosi ritengono infatti che l’etnia Kalash costituisca l’esemplare superstite degli ari – o ariani – i quali, migrando millenni or sono dai monti dell’Asia Centrale, scesero nelle pianure del sub-continente indiano e mescolandosi ai preesistenti popoli dravidici diedero origine alle attuali popolazioni dell’India e di tutta la zona.
I Kalash Kafiri – come vengono definiti dai mussulmani, per i quali il termine “kafir” significa pagano, infedele, idolatra – conservano intatte le loro tradizioni e la loro lingua. Il Kalasha è una lingua orale, dardica, rientrante nel sottogruppo delle lingue indoariane e non a caso molti termini del vocabolario Kalash appaiono simili al sanscrito. A partire dal 1983 un gruppo di Kalash colti, utilizzando l’alfabeto inglese, ha dato alla lingua anche una forma scritta. I Kalash professano una religione politeista, secondo la quale ogni dio ha una sua funzione precisa nel cosmo, e la natura gioca un ruolo significativo e spirituale nella vita di tutti i giorni. La figura di riferimento per i Kalash è lo sciamano, a metà strada tra il sacerdote ed il veggente, il quale funge da mediatore tra l’uomo e le divinità. Il ritmo annuale della vita dei Kalash viene scandito dai festival, capisaldi delle loro tradizioni religiose. Momenti di celebrazione, di condivisione e di sacrifici per ringraziare le divinità dei doni ricevuti, ma anche momenti di purificazione e di confronto in cui, nell’atmosfera festosa e conviviale di danze e musica, gli anziani raccontano storie e trasmettono ai giovani la loro cultura affinché non vada perduta. Il momento celebrativo più importante dell’anno risulta essere il Chaumos – la festa del solstizio d’inverno – con cui viene chiesta agli dei la rinascita della natura. Il Chaumos dura 23 giorni; la prima notte i Kalash accendono grandi fuochi per lottare contro l’oscurità dell’inverno e purificare l’aria, mentre le donne bruciano le loro vecchie ceste per distruggere simbolicamente le discussioni ed i cattivi pensieri, che non devono perpetuarsi nel nuovo anno. I vari clan si riuniscono ed offrono alle divinità statue rappresentative di animali, chiedendo in cambio animali veri. Il Chaumos rappresenta anche il momento dell’astinenza sessuale, inteso come dono alla dea della fertilità perché nascano bambini numerosi. Ad ogni solstizio d’inverno uomini e donne devono ripetere la loro appartenenza al clan, proclamando fedeltà alle divinità ed agli altri membri del gruppo. Interessante anche il festival d’Uchal, il quale si celebra alla fine di agosto, un momento di offerte al dio Mahandeo.
Due elementi caratterizzano la società Kalash, nel contesto mussulmano che li circonda: il ruolo delle donne ed il consumo di alcol. La libertà delle donne viene vista dai mussulmani come un oltraggio, una mancanza di rispetto. Le relazioni tra i due sessi sono libere, quotidiane, senza tabu né divieti. Il divorzio è accettato, indipendentemente da quale delle due parti lo richieda. Le donne vivono sotto lo sguardo della comunità, senza veli né burqa. Unica nota stridente in tutto ciò è il fatto che la donna Kalash non possa ereditare o possedere alcunché, fatta eccezione per i suoi gioielli. L’eredità si trasmette, infatti, soltanto per linea maschile. Per quanto riguarda l’abbigliamento, da qualche decennio a questa parte gli uomini hanno adottato l’abitudine di indossare il shalwarkameez – tipico vestito pakistano – mentre le donne sono rimaste fedeli al loro abito tradizionale fatto di una lunga gonna nera ricamata ed una cuffia, detta shutshut, composta di perle e di cauri, conchiglie di Cipree il cui centro di raccolta si trova nelle isole Maldive.
Durante il periodo mestruale le donne – che a causa del sangue sono ritenute impure – si recano nel bashali e vi restano isolate per tutto il periodo del ciclo. Lo stesso vale per i giorni prima del parto, momento riservato alle donne visto che gli uomini non possono accedere al bashali. In questi periodi di esclusione le donne vivono sollevate da ogni attività domestica e da sforzi fisici per il lavoro nei campi. Il consumo di alcol risulta abituale nella cultura kalash. Bevono il vino che producono loro stessi alla vecchia maniera, pestando l’uva con i piedi e conservando la bevanda nelle brocche fino alla fermentazione. Ovviamente il consumo di alcol rappresenta un ulteriore oltraggio all’Islam, in quanto nel paese risulta proibito, anche se non sono pochi i pakistani di etnia Pendjabis che organizzano visite alla regione per bere clandestinamente del vino.
Pur non essendo mussulmani, i Kalash accettano e praticano liberamente la poligamia e sia gli uomini che le donne possono convolare liberamente a seconde nozze. Peculiare anche il rapporto con la morte, che per i Kalash è una semplice “conclusione del viaggio” e l’accolgono più con gioia che con dolore. Infatti non sotterrano i loro cari, ma li depongono all’interno di massicce bare di legno lasciate all’aria nei boschi di agrifogli, funzionanti da cimiteri. Alla base della vita dei Kalash c’è il concetto di purezza, inserito in un universo che si proietta nel paesaggio. Gli uomini e le “altezze” – come le sommità delle montagne – rientrano nell’area pura, le donne e le “regioni basse” – come le valli – a quella dell’impurità. Solo gli uomini possono occuparsi del bestiame nei pascoli ad alta quota, mentre i lavori domestici rientrano nella sfera femminile che resta a valle. Le donne sono considerate per natura impure a causa delle mestruazioni, e non possono recarsi nelle montagne vicine perché ritenute sacre. Un’etnia che è riuscita a preservare la propria identità e le sue tradizioni nonostante si trovi a vivere nel cuore di un mondo islamizzatosi più di mille anni fa. Ma la domanda a sorgere spontanea è: riuscirà a resistere anche alla globalizzazione?
Il Tour Operator Viaggi Tribali, specializzato in itinerari dal taglio etnografico e culturale, ha in programma un tour di gruppo nella regione del Kafiristan in occasione dell’Uchal Kalash Festival, dall’11 al 26 agosto 2019. Il viaggio partirà da Islamabad, la capitale, e attraverso paesaggi suggestivi a quote che superano i 4.000 metri di altezza, raggiungerà la regione dell’Indu Kush, ai confini con l’Afghanistan. Numerosi i punti di interesse lungo il cammino, tra cui le incisioni rupestri di Chilas, la vista panoramica dal Nanga Rabat (che con i suoi 8.125 metri si attesta come la seconda vetta più alta del paese e la nona al mondo), la Hunza Valley – nota come la terra dell’eterna gioventù, ha ispirato l’opera di James Hilton Orizzonti Perduti – e la partecipazione all’Uchal Festival seguendo i Kalash di villaggio in villaggio.
Info: Viaggi Tribali: https://www.viaggitribali.it/viaggio/kalash-uchal-festival-viaggio-pakistan/ Info@viaggitribali.it – tel. 0429 17 60 736 –
Testo/Diana Facile – Foto/Giuseppe Russo