Ho sempre sostenuto che a spingere avanti l’uomo nel processo evolutivo sia stata la curiosità, l’irrazionale necessità di sapere cosa si celasse dietro a quella montagna, oppure sull’altra sponda del fiume o del lago. Così, in molto meno di 100 mila anni, passo dopo passo e curiosità dopo curiosità, partendo dalla Rift Valley nell’Africa australe l’uomo ha colonizzato l’universo mondo, compresi gli angoli più difficili e remoti del pianeta. E se non fosse per l’innata curiosità di capire e di sapere, non saremmo in procinto di conquistare lo spazio siderale, ma saremmo ancora nelle caverne a scheggiare pietre vestiti di pelli. La curiosità ha sempre spinto l’uomo a compiere passi da gigante in ogni settore, acquisendo ogni volta una nuova esperienza conoscitiva, presupposto per un’acquisizione successiva.
Coltivando una simile visione, non ho mai avuto titoli, ogni qual volta succedeva una disgrazia ad un alpinista, uno speleologo, un subacqueo, un deltaplanista, un automobilista, ecc., per unirmi alla scontata domanda retorica “Ma chi glie lo ha fatto fare ?”. Qualcuno doveva pur farlo, nel bene e nel male, aggiungo io, perché in caso contrario abiteremmo ancora nelle caverne, ed io comincio a soffrire di reumatismi. Appare congenita alla natura umana la sfida, la competizione, l’osare, contro tutti gli altri o anche soltanto per se stessi, senza alcun apparente tornaconto, perché qualcuno avrebbe pur dovuto farlo prima o poi. Se non avessi ragionato così, a 16 anni non sarei diventato l’enfant prodige della speleologia italiana, con qualche decennio passato ad esplorare pozzi, caverne, cunicoli e fiumi sotterranei (e ad accumulare due record italiani di profondità) e l’altra metà della vita ad indagare la maestosità dei deserti in tutti i continenti. Credo di avere titoli a sufficienza per sostenere che da sempre l’uomo aspira alla conquista dell’inusitato, del difficile, dell’impossibile, anche a costo della vita e pure senza alcun tornaconto pratico. E’ l’Ulisse tratteggiato da Dante nella Divina Commedia, l’uomo che impiega 10 anni per ritornare dalla guerra di Troia fino ad Itaca, perché curioso di vedere tutto e di sperimentare tutto lungo il tragitto “perché nati non foste per viver come bruti, ma per seguir virtude e conoscenza” e dopo 10 anni si rimette in mare per scoprire altri mondi, consapevole del fatto che non farà più ritorno.
Mi ha richiamato alla memoria questa serie di considerazioni la recente vista di una fotografia, scattata da un’alpinista presente, che nei giorni scorsi ha fatto il giro del mondo su tutti i giornali, telegiornali e social. Si tratta di una foto della cresta sommitale dell’Everest, poco prima della vetta ad 8.848 m di altitudine, occupata da una fila ininterrotta di alpinisti, fermi in attesa del loro turno per accedere per pochi istanti alla vetta vera e propria, dove scattare una rapida istantanea e poi iniziare una lunga e pericolosa discesa. Come si sa l’Everest è una delle sette cime della catena dell’Himalaya a superare gli 8 mila metri di altezza, in realtà la più alta di tutte dell’Asia e della Terra con un’altezza esatta di 8.848 m. Diviso tra Nepal e Tibet cinese, rappresenta una delle vette più facili, o per la precisione meno difficili da scalare rispetto ad altre più basse. Venne conquistato per la prima volta il 29 maggio 1953 dal neozelandese Hillary con lo scherpa Terzing; da allora è stato preso d’assalto da decine di migliaia di scalatori, molti dei quali si sono fermati al campo base, altri hanno proseguito fino alla vetta o arretati da qualche parte. Al 2010, ultimo dato disponibile, in cima erano arrivati in 5.105, con 219 decessi. Il più giovane aveva 13 anni, il più anziano 80, la salita più veloce campo base – vetta compiuta in 8 ore e 10 minuti.
Maggio risulta il mese meteorologicamente più idoneo, ma quest’anno si è trattato di una primavera nera. Complice l’elevato numero di permessi di ascensione venduti dal Nepal (ben 381, ad un prezzo di 11.000 dollari ciascuno, una cifra davvero rilevante da queste parti, ma che vuol dire anche non meno di 10 mila alpinisti in contemporanea protesi alla conquista della vetta) ed il fatto che le giornate di bel tempo in maggio siano state soltanto 5, ha finito per fare sì che un gran numero di aspiranti vettaioli si siano trovati in fila in prossimità della cima, fermi per ore (non meno di due) in attesa del loro turno. Il 25 maggio, il giorno della fotografia, fermi erano almeno in 250, ma c’è chi sostiene che in altri giorni siano stati anche di più, fino ad un massimo di 320. Ora dovere stare fermi al freddo, ai venti ed a quella altitudine per tanto tempo non succede senza gravi conseguenze fisiche. Le cellule cominciano a morire ad una ad una, senza che ci si possa fare niente. Il freddo provoca congelamenti degli arti, con necessità di rapida amputazione, si registrano trombi ed embolie, edemi polmonari e cerebrali.
Scientificamente parlando, sopra gli ottomila si entra nella Zona della Morte, dove la rarefazione dell’ossigeno (a livello del mare il 40 % dell’aria è formato da ossigeno puro, capace di scendere di due terzi a quella quota, cioè occorrono tre respiri per farne uno; ecco perché un tempo parecchi ricorrevano alle bombole dell’ossigeno in vetta, ma questo richiedeva un gran numero di portatori, notevoli costi e maggiori rischi di morte) provoca anche a riposo infarti, ictus e perdita delle capacità cognitive, con pulsazioni in salita a 140 battiti/minuto, con elevato rischio di infarto. Ecco allora che, mentre dal 2016 al 2018 compresi si erano registrati in tutto sull’Everest 17 decessi, nel solo maggio 2019 a morire sono stati in dieci, non in incidenti di arrampicata, ma in fila ed a riposo in attesa di accedere al punto clou. Ne vale ancora la pena ? A questo punto anche le mie granitiche certezze cominciano a vacillare, non c’è più Ulisse di Dante che tenga. Rischiare di morire senza neppure avere la consolazione di poter dire di essere stato l’ottomillesimo uomo a mettere piede sull’Everest, così come morire in fila per entrare in uno stadio, in un autodromo o in un cinema, mi lascia davvero molto perplesso. Ma lascio che a questa domanda ciascuno risponda per sé.
Testo/Giulio Badini- Foto/Google Immagini