Non venite a raccontarmi che c’è qualcuno, a qualsivoglia latitudine, contento di pagare le tasse, perché non ci credo. Che poi qualcuno – speriamo tutti – le paghino, è un altro discorso. Obbligati si, felici no. Inutile tirare in ballo la deviante affermazione, secondo cui le tasse pagate dai cittadini ci ritornano dallo stato sotto forma di servizi: scuole, ospedali, strade, sicurezza, ecc. Sciocchezze. Basta ascoltare un telegiornale qualsiasi e contare gli scandali quotidiani per furti, tangenti, malversazioni e quant’altro, per rendersi conto come nel nostro paese troppi soldi prendono una strada sbagliata, assolutamente impropria. E così finiamo per percepire le tasse da noi pagate come un esproprio ingiusto, da evitare se appena possibile (e in Italia sembrano riuscirci molto bene in parecchi, se è vero che il sommerso ammonta ogni anno a ben 130 miliardi di euro).
Anche il turismo annovera le sue tasse specifiche, la cui più famosa risulta essere quella nota con il nome di tassa di soggiorno. Istituita nel 2016 dal governo di sinistra (Renzi per intenderci), colpisce quanti soggiornano per qualche giorno in località a valenza turistica, termine quanto mai ambiguo. Per superare una forte opposizione, i bugiardi proponenti la sventolarono come una tassa di scopo: un lieve balzello sui visitatori per finanziare le strutture e le iniziative turistiche delle località. Messa così, poteva anche starci. A 4 anni di distanza, la verità si è rivelata tutt’altra cosa. Applicata a macchia di leopardo da una netta minoranza degli interessati, per cui località ad indubbia valenza turistica ne sono privi, mentre altre di discutibile interesse la applicano, con aliquote una diversa dall’altra, per cui in teoria a Caltanissetta si può pagare più che a Venezia.
Inoltre non pochi albergatori, b&b, ed affitti brevi – incaricati per legge all’esazione – l’hanno riscossa dai turisti, ma si sono ben guardati dal versarla nelle casse dei comuni, commettendo il reato di appropriazione indebita (sottoclasse del furto) e relativo danno erariale, con conseguente processo. Infine i comuni l’hanno utilizzata il più delle volte per risanare i disastrati bilanci, e non per interventi di miglioria turistica. E questo per il semplice fatto che la legge istitutiva – siamo o no il paese di Macchiavelli – non impone un simile obbligo di impiego. Insomma una legge odiosa, sbagliata (capace pure di dirottare flussi consistenti di visitatori verso altri lidi), fatta da politicanti incompetenti, in poche parole il solito pasticciaccio all’italiana.
Non stiamo parlando di bruscolini: sulla carta gli introiti nel 2019 dovrebbero toccare i 600 milioni, raccolti da circa 900 comuni, ma il tasso di evasione in alcuni casi supera il 50 %, una cifra rilevante a cui i comuni non possono certo rinunciare, e che sommamente ingiusto possano finire nelle tasche sbagliate, così come risulta sicuramente sbagliato sottrarre una simile cifra, proveniente dai turisti, agli investimenti nel turismo, per salvare i bilanci in rosso di parecchi comuni. Altrettanto anacronistica l’applicazione della tassa di soggiorno: in Valle d’Aosta, ad esempio, l’hanno promossa il 78 % dei comuni, in Trentino – Alto Adige e Toscana il 40, in Veneto il 18, in Lazio il 5, in Molise lo 0 %. A livello nazionale solo 950 comuni (su 8.000), vale a dire un appena 12 % del totale, e il 16 % degli aventi facoltà. Sorte peggiore per una legge non la si poteva proprio immaginare.
Testo/Giulio Badini – Foto/Google Immagini