Era il 1856 quando in una grotta nella valle di Neander presso Dusseldorf in Germania vennero scoperti resti umani appartenenti ad una nuova specie di ominide preistorico a noi piuttosto vicino, l’Homo neanderthalensis, predecessore dell’ Homo sapiens – cioè noi – che uscito dall’Africa, terra generatrice comune, attorno a duecentomila anni or sono colonizzò tutta l’Europa meridionale e l’Asia centrale (quelle settentrionali erano allora ricoperte dai ghiacci perenni dell’ultima glaciazione), fino a scomparire misteriosamente al più tardi 28.000 anni fa, sostituito dal sapiens che si è espanso poi in tutto il pianeta. I reperti descrivevano individui non propriamente affascinanti dal punto di vista estetico, piuttosto tarchiati, bassi di statura, con fronte sfuggente e potenti arcate sopracciliari, con spiccato prognatismo e mento assente, pieni di peli e dagli arruffati capelli corvini. Secondo la mentalità dell’epoca, data la sua anzianità non poteva che essere un selvaggio brutto, sporco e cattivo, con testimonianze di cannibalismo, destinato a perdere a priori la competitività con un essere più moderno, intelligente e tecnologico. Darwin, a quel tempo, non aveva ancora formulato la sua teoria evoluzionistica, e non a tutti poteva piacere l’idea di discendere da una scimmia. Il progresso della scienza e un secolo e mezzo di scoperte, con oltre 400 individui identificati in tutta l’Eurasia, ci forniscono oggi un quadro ben diverso da allora. In estrema sintesi, e con tutte le generalizzazioni dovute ai vettori tempo e spazio, si trattava di un essere piuttosto intelligente ed evoluto, con capacità cranica addirittura superiore alla nostra, capace di costruire ed usare efficienti strumenti in pietra, legno ed osso, radicato carnivoro e quindi abile cacciatore con animali pericolosi di grossa taglia come orsi, lupi, buoi, bufali, alce e rinoceronte, bravo nel costruire abiti, coperte e tende con le pelli conciate degli animali per sopravvivere ai rigori dell’ultima glaciazione (il freddo consumava 4-5.000 calorie al giorno, equivalenti a due kg di carne), maturo a 15 anni e vecchio a 30. Sapeva parlare come noi, maneggiare e trasportare il fuoco, viveva in clan famigliari d’estate in tenda e d’inverno entro caverne, spostandosi per seguire la migrazione della fauna, suo principale sostentamento. Sappiamo per certo di comportamenti culturali avanzati, come il concetto estetico e di arte (fu il primo a dipingere le caverne 32.000 anni fa), il primo a seppellire i morti con riti e corredi funebri che fanno pensare ad un concetto di aldilà, a decorarsi il corpo con ocra, monili e piume di uccelli, ad inventare il più antico strumento musicale a fiato. Un selvaggio tutto sommato assai progredito. Oggi sappiamo anche che per alcuni millenni, tra 42 e 39.000 anni fa neanderthal e sapiens hanno convissuto negli stessi territori, addirittura contemporaneamente nella stessa grotta. Non conosciamo invece il tipo di contatto esistito e, soprattutto, non sappiamo se vi fu ibridazione tra le due specie, disponendo al riguardo di prove ambivalenti; qualcuno avanza l’ipotesi di ibridazione, ma sterile. Quello che è certo è che una sequenza di DNA mitocondriale, eseguita nel 2010 da reperti risalenti a 38.310 anni e provenienti dalla Vindija Cave croata ha dimostrato, in concordanza con altri esami eseguiti su altri reperti europei, che nel nostro sangue circolano ancora tra l’ 1 e il 4 % di geni neandertaliani, che le due specie condividono il 96 % dei geni e che il cromosoma sessuale Y dei secondi deriva dai primi. Una testimonianza, quindi, è rimasta. Le sue ultime tracce, mischiate con quelle del sapiens, risalgono a 28 mila anni (in corrispondenza del picco massimo della glaciazione wurmiana), poi più nulla. Diverse le ipotesi (competizione con i nuovi arrivati, mutazioni climatiche, contrazione di nuove malattie, ecc.), ma nessuna certezza. Forse più concause, oppure semplicemente l’uomo di Neanderthal aveva esaurito la propria importante funzione evolutiva sulla terra, come capitato ad un gran numero di specie animali e vegetali, ed era giunto il momento di lasciare spazio ad altri, e cioè a noi.
Tracce dell’Homo neanderthalensis si possono osservare in parecchi musei dei due continenti, con particolare frequenza nei paesi dell’Europa centro- meridionale, la prima ad essere colonizzata. Ma vi sono alcune località, ben note agli specialisti, più importanti di altre per la quantità o la peculiarità dei reperti recuperati. Tra queste, due grotte nella Croazia continentale interna, tra loro non distanti, nella regione dello Zagorje a nord della capitale Zagabria, che meritano sicuramente una visita, la grotta di Krapina nel paese omonimo e la Vindija Cave, 20 Km a ovest di Varazdin. E 10 da Trokoscan (e 40 da Krapina). Evidentemente ai nostri lontani predecessori questa regione piaceva. La seconda, scavata dal 1974, ha rivelato una sequenza stratigrafica di ben 13 livelli che coprono un arco di tempo degli ultimi 200 mila anni, con reperti litici, animali e umani. In particolare i livelli tra 45 e 38.000 anni rilevano la presenza dei neandertaliani più antichi (da qui provengono i resti sottoposti all’esame del DNA), quelli tra 34 e 32.000 di neandertaliani più recenti, tra 31 e 28.000 entrambe le presenze (Neanderthal e sapiens), dopo 18,500 solo sapiens. Curiosamente il 90 % delle ossa di animali rinvenute appartengono ad ursus spelaeus. I neandertaliani della Vindija Cave si cibavano per caso soltanto di carne di orso delle caverne ? La grotta può essere visitata liberamente, oppure accompagnati. Info: nacelnik@voca.hr, tel. 00385.98.274 509.
Più fruibile e didatticamente interessante anche per un pubblico di profani la grotta in arenaria di Krapina, 55 km a nord di Zagabria, scavata all’inizio del secolo scorso, poi distrutta e inglobata in un pregevole museo moderno interattivo sulla storia della terra, aperto nel 2010, il Neanderthal Krapina Museum. Qui un deposito di 8 m, che copre gli ultimi 130.000 anni del pianeta, ha restituito la più consistente documentazione in assoluto relativa ai neandertaliani, vale a dire 876 reperti umani, tra cui 196 denti, appartenenti ad una ventina di individui di età compresa tra 2 e 40 anni, oltre mille strumenti litici e ossa di varie tipologie di animali sue prede. Tra questi reperti, oggi conservati al Museo di Storia Naturale di Zagabria, spicca una incredibile parure di otto artigli ben levigati di aquila di mare, il maggior predatore europeo dell’aria, usati come gioielli a scopo estetico. Il museo è una macchina del tempo che racconta la storia dell’universo, dal Big Bang ad oggi, del pianeta, dell’evoluzione umana e in particolare dell’Uomo di Neanderthal, con eloquenti diorama e ricostruzioni di scene di vita preistorica. La visita, con audio guide in otto lingue, dura 70 minuti. Info: www.mkn.mhz.hr, tel. 00385 49 371 491, www.krapina.com
Testo : Giulio Badini
Foto: Museum Neanderthal Krapina
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