Il Mast di Bologna, Manifattura di arti, sperimentazioni e tecnologia (www.mast.org), costituisce una notevole istituzione cultural-museale – voluta dall’imprenditrice e filantropa bolognese Isabella Seragnoli (gruppo Coesia) – che s’articola su ben 25.000 metri quadrati, inaugurati nel 2014 su progetto architettonico dello studio Labics di Roma. Comprende un parco di sculture (opere dei quotatissimi Olafur Eliasson, Anish Kapoor, Mark di Suvero, Julian Opi, Arnaldo Pomodoro), un vasto spazio espositivo ad ingresso gratuito, un auditorium da 400 posti, un’Academy, una caffetteria e ristorante aziendale (sovraintesi dai nutrizionisti del Centro Gruber di Bologna), un asilo nido, un centro wellness. Ospita sia collezioni permanenti di fotografia, soprattutto industriale, che mostre temporanee (curate dallo svizzero Urs Stahel, storico della fotografia), l’ultima delle quali è Anthropocene, grandiosa esposizione multi-mediale costituita da 35 fotografie di grande formato, due murales ed un docu-film, presentata a Bologna in anteprima europea.
Termine coniato negli anni Ottanta dal biologo Eugene F. Stoermer, Anthropocene definisce l’attuale epoca geologica, in cui il comportamento dell’ homo sapiens impatta pesantemente sull’equilibrio della Terra, risultando la prima causa della mutazione planetaria permanente. Il multi-disciplinare progetto Anthropocene è nato da un lavoro d’équipe, durato quattro anni, fra il celebre fotografo canadese Edward Burtynsky ed i pluri-premiati cineasti canadesi Jennifer Baichwal e Nicolas de Pencier, ed è in pratica un’esplorazione, a livello mondiale, capace di riuscire a documentare quanto l’uomo sia in grado di stravolgere e/o di distruggere il Pianeta, in nome della cosiddetta ‘civiltà industriale’, la quale riesce a devastare, a volte persino con inconsapevole ed ignorante leggerezza, le bellezze naturali e l’ambiente.
In sostanza si documenta la purtroppo indelebile impronta che l’uomo lascia sulla Terra: dalle galleggianti strutture frangi-flutti, edificate sul 60 per cento delle coste cinesi, all’inclinazione di 45 gradi, nel Mar Cinese orientale, a 35 chilometri dalla costa, della piattaforma petrolifera della cinese Shengli Oilfield; dalla devastazione della Grande barriera corallina dell’Australia a quella della barriera indonesiana di Batu Bolong, nel parco nazionale di Komodo, che subisce la sempre più pesante offensiva della pesca di frodo; dal deserto di Atacama (Cile) e le sue surreali vasche d’evaporazione del litio, minerale tenero, utilizzato per le batterie di auto elettriche, laptop e smartphone, all’isola di Vancouver, British Columbia canadese, dove sono rimasti solo il 10% delle splendide foreste e della relativa bio-diversità, causa la massiccia esportazione di legname.
E, ancora, dal Parco nazionale e riserva naturale di Amboseli (Kenya), impregnato dell’odore della morte di 10mila elefanti per l’illegale scopo di strapparne le zanne d’avorio (che hanno commercialmente valso 150 milioni di dollari), ad una delle più estese e inquinate discariche del mondo, Dandora, a dieci chilometri da Nairobi (Kenya) dove, nelle baraccopoli che la circondano, sopravvivono, in tragica indigenza, centinaia di persone che ogni giorno scavano a mani nude tra i pericolosi rifiuti, nella speranza di trovarvi qualcosa da rivendere. E poi, da Norilsk, in Russia, la più inquinata città d’Europa, dal 2000 diventata il più grande sito al mondo per lo smaltimento dei metalli pesanti, alla città super-industriale di Berezniki (monti Urali), costruita su una miniera di potassio, dove già dagli anni Ottanta hanno iniziato a comparire nel terreno enormi crateri che stanno mano a mano inghiottendo fabbriche, uffici e scuole; da Immerath, nella tedesca Westfalia dove, dopo l’esaurimento delle miniere di carbone, hanno ben pensato di abbattere, con le più gigantesche scavatrici del mondo, le miniere esaurite e l’intero villaggio per installarvi un grande lago artificiale, per non parlare infine dello svizzero traforo del Gottardo, il più lungo tunnel del mondo, e di tutto ciò che ha comportato sulla natura vivente, circostante e sovrastante…
Arrivati al Belpaese, si tira quasi un respiro di sollievo quando ci vengono sbattuti sotto gli occhi ‘spaventi’ che conosciamo a menadito: l’acqua alta a Venezia, che progressivamente affonda a causa dell’innalzamento del livello del Mediterraneo, ed il saccheggiamento delle Alpi Apuane, cioè le cave di marmo di Carrara, da cui si ricavano non solo le sublimi opere michelangiolesche, ma rivestimenti parietali, pavimenti e complementi d’arredo, anche molto Kitsch ma di sicuro incasso. Straziante e, anzi, scioccante il grido di dolore della madre Terra, a cui l’uomo ne ha realmente fatte di tutti i colori ed, alla fine, si meriterebbe che la natura gli si rivolti contro con la sua stessa violenza, magari con un terminale diluvio universale a mezzo tsunami.
Il progetto Anthropocene, che in certi momenti ed in certi luoghi ricorda gli scenari apocalittici del film “Blade Runner 2049” e, in altri, pare quasi un reportage post-guerra, ha in primis lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale anche attraverso tecniche visive estremamente avanzate, le quali utilizzano la realtà aumentata e virtuale (il museo mette infatti a disposizione anche dei tablet capaci di immergere il visitatore all’interno delle installazioni), nonché tramite l’app Avara, scaricabile gratuitamente su cellulare.
Il vibrante progetto Anthropocene ha debuttato in Canada, nel settembre 2018, con il film Anthropocene: the Human Epoch, proiettato in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival e con le mostre allestite contemporaneamente all’Art gallery of Ontario di Toronto e alla National gallery of Canada di Ottawa. Debutta in Europa al Mast di Bologna, dove ci rimane fino al 22 settembre.
Info: Fondazione Mast, via Speranza 42, 40133 Bologna, tel. 051 6474345, info@fondazionemast.org – www.mast.org – Orari d’apertura: da martedì a domenica dalle 10 alle 19, ingresso gratuito.
Testo/Olivia Cremascoli – foto/Edward Burtynsky©, courtesy Admira Photography, Milan / Nicholas Metivier Gallery, Toronto