Francesca nasce a Tradate, in provincia di Varese. Figlia dell’esploratore e documentarista Ambrogio Fogar, che per molti anni la chiamerà Margherita, da subito viene abituata dall’affettuoso ma esigente padre a confidare nelle sue capacità e convinta a dedicarsi a vari sport. Sin da bambina viaggia spesso, prima con il padre e poi da sola, sviluppando quel gene dell’avventura che, come confiderà lei stessa anni dopo nel bel libro “Ti aspetto in piedi”, amava immaginare come “Un’azienda di famiglia”.
Entra nel giornalismo a Mediaset molto presto, a 21 anni, inizialmente come ricercatrice di immagini, poi come autrice di programmi. Da lì in poi non si ferma più: viaggiatrice, scrittrice, inviata per “Le Iene”, autrice di documentari, programmi TV, spettacoli di teatro e fiction varie, dove tra l’altro si occupa della ricerca giornalistica.
Nel 2002 vince vari premi con “Tutto il giorno”, mini serie di quattro puntate dedicate ad altrettanti argomenti sociali, tra cui il G8 di Genova e il carcere di san Vittore. Dal 2007 al 2010 conduce il programma “Jonathan: sulle tracce dell’avventura”, ispirato alla serie ideata dal padre negli anni ’80. L’anno seguente partecipa anche all’Isola dei famosi, poi passa a numerosi altri lavori, tra cui Quinta Colonna su rete 4, e Confessione Reporter su Italia 1.
Emiliano Caruso: Nella tua vita non ti sei fatta mancare nulla. Sportiva, scrittrice, giornalista, documentarista, conduttrice televisiva, viaggiatrice. Una carriera piena, iniziata da giovanissima, ma come si definisce Francesca nel suo lavoro?
Francesca Fogar: Una carriera piena e iniziata da giovanissima come dici, ma per come la vedo io totalmente dall’inizio ogni giorno, nel senso che sono assolutamente convinta dell’idea che il cambiamento sia foriero di crescita, di scoperte e di tante cose buone. Quindi io mi sento ancora nel pieno corso della mia carriera, e se devo essere sincera da dieci anni lavoro a tutto tondo su alcuni programmi di Mediaset che sono molto interessanti, come “Quarto Grado” di cronaca nera e programmi di Stella Pende. Anche programmi più leggeri, di spettacolo, ma sento che siamo vicini al momento in cui sarebbe bene cambiare. Ambrogio diceva che ogni dieci anni, avendone la possibilità, la forza e il coraggio si va a cambiare lavoro. A me semplicemente è iniziata per caso, forse per familiarità col tema, nel senso che papà era uno scrittore, giornalista, un esploratore curioso, e quindi io ho iniziato in questo mondo, che è poi quello della struttura della comunicazione su cui si fonda la parola giornalismo, che si respirava in famiglia.
E.C.: Qual è la molla che ti ha spinto a dedicarti al giornalismo d’avventura? C’è un episodio specifico o è stato un passaggio graduale?
F.F.: Di giornalismo d’avventura mi sono occupata in realtà una volta sola nel 2009, quando c’era lo spazio affinché venisse accolta la riedizione di “Jonathan”. Questo è stato il mio giornalismo d’avventura, nel senso che mi sono dedicata a prendermi cura di quel passato, fiera di papà, per riportarlo alla luce e trasmetterlo agli altri. Giornalismo d’avventura vero e proprio nel senso stretto del termine direi che non ne ho fatto, a meno che non vogliamo considerare “Le Iene” e alcuni programmi sperimentali. Come reportage in giro per il mondo ho fatto cose molto interessanti magari anche come esperienze all’interno dell’essere umano.
E.C.: Nei tuoi lavori ti sei dimostrata spesso sensibile a temi ambientali. Come immagini il rapporto tra l’essere umano e la natura tra una cinquantina d’anni?
F.F.: Nei miei lavori la mia sensibilità ambientale l’ho dimostrata più che altro riportando alla luce un passato dove l’ambiente veniva considerato un bene molto prezioso. Perché, semplicemente, più avanti si progredisce seguendo la molla del progresso e più spesso a farne le spese è il nostro pianeta. Anche quell’assurdità di considerare avveniristiche le battaglie di persone come gli ambientalisti, che vengono vissute come cose straordinarie o deprecabili a seconda di chi le ascolta, ma in realtà sono normalissime e sacrosante. Si è talmente spostata la bilancia sull’errore di pensare che possiamo fare quel che vogliamo al pianeta, con la scusa che è il nostro, che alla fine ci sembra assolutamente straordinario che ci siano persone che intendono invece rispettarlo. Stiamo facendo una cosa che dimostra una cecità sul lungo termine, perché questo pianeta bisogna lasciarlo nelle condizioni giuste alle persone che amiamo. Forse non è neanche più possibile ritornare nelle condizioni precedenti a questo sfruttamento eccessivo, che ora si cerca magari in parte di limitare. Io nel mio piccolo cerco di essere attenta, devo parlare solo per me nel senso che di grandi campagne ambientali non le ho fatte, ma mi è capitato di fare dei servizi giornalistici a favore di questo tema, portando l’attenzione al rispetto dell’ambiente. È anche un fenomeno che il capitalismo ha inevitabilmente incoraggiato, però non ho mai fatto grandi campagne a differenza di chi le fa per mestiere o per passione o per perché vi ha dedicato la vita. Nel mio, intendo la mia famiglia e i miei figli, cerco di contenere più che posso il dispendio di energia, di acqua ed evitando il consumismo. Mi dirai che è una goccia del mare, sì ma ricordiamoci che il mare è fatto di tante gocce.
E.C.: Cosa è l’avventura?
F.F.: L’avventura è molte cose. Essere curiosi, non accontentarsi della prima risposta, essere alla ricerca profonda di sé stessi e magari può essere vissuta dentro la natura, anche una natura difficile. L’avventura è superare un ostacolo, o anche solo cercare di farlo, non necessariamente riuscirci. Secondo me è quel fattore, quell’insieme di tanti elementi che rispondono a un’unica e grande regola che è il mettersi alla prova e il cercare la verità in qualunque forma e in qualunque modo una persona la interpreti o la consideri. Avventura è anche fare una passeggiata in montagna con le scarpe sbagliate, nel senso andando proprio a cercarsela. Senza fare una cosa imprudente o rischiosa, perché ricordiamoci che la ricerca è un’altra, non il fare una cosa stupida o divertente. Ma può essere mettersi nelle condizioni più difficili con lo scopo di trovare qualcosa di meno scontato e banale, meno a portata di mano. Ecco, è quella lente, quel paio di occhiali che inforcandoli ti mettono in condizione di vedere le cose in modo diverso.
E.C.: In un mondo iperconnesso e turistico, in cui luoghi inaccessibili fino a 30 anni fa sono ormai alla portata di tutti, che senso ha oggi la figura dell’esploratore?
F.F.: Questo succedeva in realtà anche nel 1973, quando Ambrogio disse di voler fare il giro del mondo (allude alla circumnavigazione del mondo sul Surprise, ndr) e la gente pensò che fosse pazzo. Forse era un modo per valutare un uomo che voleva dare un suo tributo di tipo nautico e sportivo in un periodo in cui la scoperta e l’esplorazione erano date per scontate e tutto era ormai già stato scoperto, non c’era un’America o una qualche isola che non fosse ancora stata tracciata. A me personalmente non importa, a parte il fatto che le condizioni in cui lo fece erano ovviamente meno tecnologiche, meno iperconnesse, per cui se ti capitava qualcosa in mare non ti ripescavano più. Non esistevano le possibilità del satellitare e del tracciamento che oggi rendono molto più agevoli vari recuperi in seguito a pericoli, incidenti o imprevisti. Ma è anche vero che la natura, come questa ultima pandemia ci insegna, è la vera padrona di sé stessa, è sia la madre che la figlia di quel che accade, nel senso che c’è poco da fare: se la natura decide una cosa l’uomo ci si può anche mettere con tutte le sue tecnologie le sue scoperte e intuizioni meravigliose, ma non c’è gara.
Diciamo che una figura dell’esploratore secondo me anche qui ha il senso di uno che cerca qualcosa secondo una chiave, una prospettiva, da offrire poi eventualmente a chi e non ha potuto accedervi. Un’ottica diversa da quella conosciuta. Quindi l’esploratore può essere tantissime cose ancora oggi, non ci dobbiamo immaginare Amundsen o l’alpinista che va con lo sherpa sull’Himalaya. L’esploratore non è solo quella cosa lì, può anche essere uno scrittore che esplora l’anima o una persona che incita gli altri a una ricerca. La figura dell’esploratore nel senso più profondo del termine è qualcosa del genere. Poi se la incarni andando in giro per il mondo, scegliendo la natura e le sue bellezze come un soggetto di ricerca va comunque bene, il senso può essere ancora attuale. Esistono ancora delle figure così, magari sono meno affascinanti o sanno raccontarsi di meno ma esistono. L’esplorazione è uno dei fondamenti dell’umanità e uno dei suoi lati migliori, quindi va perseguita anche nel senso più conosciuto del termine, ma va bene anche se una persona va a esplorare un posto e ne sa tirare fuori un trattato meraviglioso. Per fare un esempio se uno va in Australia raccontandola poi in un modo che nessuno ha fatto prima, vivendola in una forma nuova, quello è un esploratore, per come la vedo io.
E.C.: Oggi si può ancora vivere di avventura?
F.F.: Non saprei, perché c’è chi ci riesce e chi non ci riesce. Diciamo che mio padre è stato il primo in Italia a vivere di avventura, nel senso non esisteva proprio quel lavoro. C’è stato in seguito, ma in una forma diversa, molto legata agli sponsor. In parte c’è ancora, penso a Giovanni Soldini, che è stato in qualche modo un erede di mio papà e lo ammirava molto da ragazzo, facendo tesoro dei suoi consigli e ancora oggi vive di avventura, totalmente alla vela.
Forse oggi sono cambiati leggermente i modi, come succede poi tra le generazioni in un mondo che sembra cambiato in moltissime cose, ma in realtà è solo diverso il paradigma di quando si è giovani e si provano dal vivo queste situazioni, ma secondo me si può vivere ancora oggi di avventura. Magari come Bear Grylls, che lo fa mangiando insetti, o facendo una spettacolarizzazione diversa, che può essere anche considerata da alcuni una cosa stupida o da altri una cosa divertente.
E.C: Che consigli daresti oggi a chi vuole dedicarsi all’avventura?
F.F.: Solo uno: farlo. Tutto quello che ne consegue è talmente variabile, dipendente dalle varie possibilità e da come è fatta una persona che un consiglio generale non esiste, perché dovrebbe essere specifico e in base a chi fa quella domanda. Il consiglio è solo quello di farlo.
E.C.: Con tutta la mole di tecnologia di cui disponiamo oggi è ancora possibile vivere davvero l’avventura? E come?
F.F.: Si è ancora possibile, eccome. Bisogna avere anche lì un po’ di coraggio, voglia e curiosità. Perché è ovvio che la pigrizia di fare un viaggio con comodità e con saputi rassicuranti incide molto sullo spirito di avventura e di scoperta.
E.C.: Oggi è ancora possibile trovare luoghi non ancora invasi dal turismo?
F.F.: Certo. In brasile e nel centro dell’Africa ce ne sono un’infinità, esistono poi le isole Salomone, alcune parti del Madagascar e della Mongolia, o ancora tutto l’altipiano intorno al Tibet. Ci sono tanti paesi non ancora invasi dal turismo che è la metà basterebbe. E il fatto che non siano conosciuti, pubblicizzati e raccontati come quelli invasi dai turisti li rende misteriosi. Nel Borneo secondo me ci sono ancora tribù che vivono in un modo sconosciuto alla maggior parte delle persone, esistono posti incontaminati e di una rara bellezza, che con un po’ di coraggio e di voglia di osare sono alla portata non dico di tutti, ma almeno di coloro che hanno questa curiosità, questa voglia di osare in grado di ripagare totalmente le attese.
E.C: Oggi molti di noi sono sempre più nevrotici, delusi, sfiduciati. E nello stesso tempo abbiamo perso lo spirito d’avventura e il contatto con i ritmi della natura. Credi ci sia un legame tra le due cose?
F.F.: Sì, credo che ci sia assolutamente un legame come tutto nel mondo, anche in cose che non vediamo, ci sono milioni di fili tesi tra le cose. Purtroppo c’è un cambiamento radicale, che io vedo al di là di quello che viene invece millantato da generazioni. Il mondo è sempre lo stesso, cambia solo un poco di forma, ma il fatto più significativo è che con l’aumento della popolazione c’è anche un aumento verso il bisogno di affermazione, di conservazione non della specie intera, ma dell’individuo. Perché siamo molti di più, e ciò scatena anche una serie di logiche e parametri su quello che viene considerato il benessere o su quello che una persona avrebbe bisogno di ottenere per sentirsi riuscita nella vita. Per cui tutto ciò, più che altro nella nostra civiltà, sedimenta non soltanto il corpo ma anche l’anima. Le due cose viaggiano insieme, quindi ad esempio una persona che va tutti i giorni a correre o che una volta alla settimana promette a sé stessa di visitare un posto nuovo, mantiene viva la sua relazione con la natura, con il paesaggio e con l’avventura.
Una persona che invece non fa altro che dire cose del tipo “Bisogna che questo margine di guadagno aumenti del venticinque per cento” e quindi per seguire questo obiettivo non va a correre non si fa mai una passeggiata in un bosco o non trova mai un tempo contemplativo dentro di sé perché di solito non è ad altissimi livelli di coscienza o di introspezione, ha bisogno di un motivo esterno. In questo caso anche lo spirito d’avventura diventa un accessorio.
E.C.: Oggi si fa ben poco giornalismo d’avventura. Sì, ci sono ancora delle riviste di viaggi, ma nulla a che vedere con quello spirito pionieristico degli anni ’80, inaugurato da tuo padre con la rivista “Jonathan” e imitato da altre testate come “Avventura”. Secondo te è perché si è perso quello spirito di scoperta e quell’entusiasmo di 30 anni fa?
F.F.: Ci sono ancora delle riviste di avventura, anche se nulla di quello che ha fatto Ambrogio, che è stato pioniere in questo senso semplicemente perché ha avuto il coraggio di portare in fondo una cosa. Ha avuto la costanza di dire “Non la mollo, vado a vedere come funziona, la conservo, la persisto la perseguo e vediamo cosa succede”. È cambiato il giornalismo d’avventura, perché come ti ho risposto nell’altra domanda sono cambiati alcuni parametri e anche il desiderio di cercare un profondo, un sacro, un altrove nelle cose e ci si accontenta più di quello che ci viene raccontato. Ecco, si è meno pionieri, meno protagonisti di sé stessi e della propria vita, e ci si accontenta meno dei propri istinti e di più della vita che ci viene imposta, raccontata o suggerita. Il cambiamento di tante cose ha fatto sì che il desiderio di scoprire qualcosa per poi condividerla e comunicarla è un po’ diminuito, trasferito su altre cose, ad esempio su quanti Like una persona raccoglie sul proprio profilo e l’entusiasmo che ne deriva, senza nulla togliere ai vantaggi di comunicazione che hanno le piattaforme social e tutto il mondo del web. L’entusiasmo e la curiosità si sono spostati su concetti molto più superficiali. Non è un giudizio morale, ma è una mia considerazione nel senso più leggero.
E.C: Dicevo che papà tuo è stato un pioniere con “Jonathan: dimensione avventura” e ha reso popolare e comprensibile a tutti questo argomento, soprattutto grazie alla sua abilità divulgativa. La cosa avveniristica, per l’epoca, è che Ambrogio non si limitava a parlarne, ma viveva in prima persona quelle imprese, molto spesso rischiando la vita. Poi spiegava l’avventura a 360 gradi, con libri, conferenze, documentari, interventi nelle scuole. Oggi, dove è sufficiente avere uno smartphone per sapere subito tutto di tutti e dovunque, avrebbe ancora senso portare l’avventura nelle case della gente? Non parlo dei “semplici” viaggi, di cui parlano oggi molti ottimi programmi, ma dell’avventura vera, con tutti i rischi e le fatiche. F.F.: Anche questo contiene in parte la risposta che ti ho appena dato, ovvero è cambiata la modalità, con quel grande, unico e vero cambiamento che è stato il web insieme a tante altre cose, tra cui credo che l’elemento di crescita demografica abbia inciso in modo potente, anche se il divario tra il ricco e povero c’è sempre stato e rimane.
Sono fiduciosa, penso che la storia sia fatta a cicli, e prima o poi terminerà questo e ne inizierà un altro. Mi piace vederla così. Anche la storia umana lo dimostra e, come mi auguro, tutta questa presunzione di sapere o di fare cose solo guardando un cellulare prima o poi esploderà come la bolla economica degli anni 80, portando con sé detriti e lacrime ma preparando il terreno a una rinascita del cuore. Non vorrei sembrare troppo zen o spiritualista, ma torneranno la curiosità, la voglia di sperimentare nel profondo, di faticare, studiare, interrogarsi. Argomenti un po’ più alti di quelli a cui la nostra mente e la nostra anima si stanno abituando, come il voyeurismo da piattaforma social. Spero che si ritorni a una ricerca più profonda.
Testo/Emiliano Federico Caruso – foto archivio/Francesca Fogar