Il franco-tedesco Chris Morin-Eitner (Parigi, 1968), laureato in architettura e di professione fotografo e filmaker con studio a Montmartre (www.morin-eitner.com), nel 2012 ha iniziato quasi per hobby a creare fotografie ‘ricomposte’, degli ibridi che a prima vista paiono una sorta di foto-dipinti di sorprendente impatto visivo, i cui soggetti sono le grandi città cosmopolite del mondo (Venezia, Roma, Parigi, Londra, Mosca, Dubai, New York, Singapore, Hong Kong, Shanghai), improvvisamente abbandonate dall’uomo, di cui flora e fauna riacquistano il pieno governo, in una visione – spettacolare e spiazzante – di un immaginifico futuro distopico, che tramuta le metropoli in lussureggianti giungle tropicali.
Non è che Morin-Eitner – che si descrive come un “attivista poetico” – avesse letto le profezie della sensitiva Sylvia Browne, però s’è immaginato che, all’alba del XXI secolo, in seguito a un avvenimento di natura imprecisata, l’umanità si eclissasse dalle grandi capitali, lasciando che la natura riacquisisse in toto i suoi spazi. E’ riuscito cioè a preconizzare ciò che sta accadendo, un po’ ovunque, durante i confinamenti da Covid-19: nella laguna veneziana e triestina riappaiono i delfini, sui bordi della romana via Cassia i cinghiali e le volpi, tassi a Firenze, cicogne e fenicotteri nella periferia milanese, famiglie di anatre passeggiano impettite a Parigi, capre di montagna scendono nella cittadina balneare di LLandudno (Galles), cervi passeggiano davanti ai negozi a Nara (Giappone), un puma dalle montagne è sceso in centro a Santiago del Cile, alci vagano curiose tra i condominii di Alberta (Canada)… Certo, effetti anche del riscaldamento climatico, ma, soprattutto, delle inesistenti presenze umane, costrette dal virus a barricarsi tra le mura domestiche. Così, l’artista fotografo, che si definisce “un metropolitano che ama la natura, con voglia di riconnessione a qualcosa di più puro”, in questi tempi virali sta assurgendo a star internazionale, ricercatissimo grazie ai suoi emblematici spaccati di città di mezzo mondo, ricoperti da vegetazione tropicale e invasi da animali della savana (leoni, tigri, giaguari, zebre, giraffe, ampala, struzzi, pappagalli, farfalle, ecc.), insomma ‘punti di riferimento’ assoluti che si saturano solo grazie alla natura libera e selvaggia. Questo suo peregrino progetto artistico, intitolato Il était une fois demain/Once upon a time tomorrow
(C’era una volta domani), ha debuttato quando il fotografo, viaggiatore indefesso, s’è fatto ispirare da due suoi contigui viaggi: uno di piacere in Cambogia, dov’è rimasto colpito dalle rovine del complesso architettonico di Preah Khan e del tempio Ta-Prohm ad Angkor, in toto ricoperti di vegetazione e inestricabilmente legati alle loro radici fisiche; un secondo, per motivi professionali, a Dubai, megalopoli simbolo di una contemporaneità architettonico-ambientale a suo parere folle. Di conseguenza, la comparata visione di questi due siderali contrasti – il sublime antico e il nuovo fiammante – gli ha creato uno choc estetico che lo ha portato a creare un’opera paradossale, che a suo modo si pone però la questione del futuro delle città. Come afferma Morin-Eitner, “nessuna civiltà è eterna, e, ancor meno, una civilizzazione che è stata costruita sul dogma della crescita economica infinita, che è tra l’altro da mettersi in rapporto alle catastrofi ecologiche provocate dalla corsa al profitto”. Di conseguenza, “in un mondo globalizzato e iper-connesso, che solo a parole auspica allo sviluppo sostenibile, ma che ci propina invece un’obsolescenza programmata via paradisi fiscali, è giunto il tempo di riconnettersi in velocità alle nostre radici più profonde”. Così, oggi ci si augura che la pandemia abbia reso a tutti manifesta la necessità di ripensare al nostro modo di vivere in rapporto all’eco-sistema, e che, vista la brutale dominazione umana sulla natura, non si può di certo escludere – come afferma David Quammen, lo scrittore ora più letto al mondo grazie al suo Spillover – che “siamo stati noi a generare l’epidemia di Coronavirus. Potrebbe essere iniziata da un pipistrello in una grotta, ma è stata l’attività umana a scatenarla”, peraltro aggiungendo che, in futuro, la frequenza delle pandemie aumenterà, causa la crescente invasione, da parte dell’uomo, di ambienti naturali.
Tornando a Chris Morin-Eitner e alla personalissima ‘tecnica mista’ che ha messo a punto, c’è da specificare che ogni sua opera finale è costituita da un collage elettronico di decine di foto (all’incirca 50), ritagliate e/o sovrapposte, che ha lui stesso scattato, in giro per il mondo, a edifici, monumenti, alberi, fiori, animali, cieli, nuvole… Per ogni opera c’è un notevolissimo lavoro di composizione, che inizia partendo dalla scelta dell’emblematico soggetto della stessa – il ponte di Brooklyn piuttosto che la Piazza Rossa o il veneziano Palazzo Ducale – considerato dalla sua prospettiva, dalla sua struttura, dalla sua luce, dai suoi colori… Poi, in base all’ispirazione e a un schizzo preparatorio, viene fatta una selezione delle ulteriori immagini che entreranno nell’opera, che vengono in pratica rilavorate, dissezionandole e ricomponendole, insomma un lunghissimo lavoro tecnico di trattamento elettronico a computer.
Nel suo archivio, l’architetto-fotografo ha immagazzinato e catalogato decine di migliaia di foto: quelle relative agli animali, le ha scattate in Africa e soprattutto in Tanzania, ricca di riserve naturali dove gli animali vivono liberi, molto più raramente negli zoo, eccezion fatta per quello straordinario di Singapore; per ciò che riguarda la vegetazione, le foto provengono dall’Asia e dall’Africa, dove l’artista ha molto viaggiato e molto fotografato la vegetazione tropicale, in quanto è da anni convinto che, nel mondo che verrà, essa invaderà le zone oggi temperate, a causa del riscaldamento climatico. D’altronde, come spiega Morin-Eitner, ciò che è sorprende è che, sovente, si ritrova la stessa vegetazione nelle foreste di continenti diversificati: esistono differenti tipi di ficus, palme o banani, ma, spesso, ci sono delle sottospecie che s’assomigliano strettamente.
Testo/Olivia Cremascoli – Foto/courtesy the artist – Foto d’apertura – Roma, piazza San Pietro in Vaticano