“…Nella stanza da pranzo c’era un armadio chiuso da uno sportello a vetri e dentro l’armadio un pezzo di pelle. Il pezzo era piccolo, ma spesso e coriaceo, con ciuffi di ispidi peli rossicci…». «Cosa è questo?» chiedeva il piccolo Bruce. «Un pezzo di Brontosauro che viene da Puerto Natales, in Patagonia”. Così il giovane Bruce Chatwin racconta la sua scoperta nel famoso libro “In Patagonia”. Più avanti ancora scriverà: “…Cercai di immaginarmi la caverna con dentro i bradipi, ma non potevo levarmi dalla testa il mostro con le zanne che nella mia mente è associato a una stanza da letto oscurata, nell’Inghilterra del periodo bellico del suo incontro, in casa della nonna Isobel, con quello che si dimostrò non essere un pezzo di dinosauro, bensì di un Milodonte.” Ma procediamo con ordine. Chatwin aveva visto un pezzo di pelle appartenuto ad un Bradipo gigante. Questi enormi erbivori del Quaternario hanno, a tutt’oggi, molte cose ancora da raccontarci, essendo tuttora aperto il dibattito se l’Uomo li avesse o no incontrati durante la sua discesa per colonizzare il Sud delle Americhe, ma questo lo vedremo più avanti.
Perché le megafaune? Fenomeni di gigantismo nelle specie viventi si sono da sempre verificati, fin dalle epoche più antiche. Solo per farne alcuni esempi, si ricordano le libellule giganti (Meganeura) del Carbonifero (cm.75 di apertura alare) insieme a certe specie di ragni (Megaracne) che potevano superare il mezzo metro. Gli stessi Dinosauri ne sono un esempio noto a tutti e, con loro, le Ammoniti che raggiunsero i due metri di diametro. Gli scienziati stanno ancora cercando di stabilirne le cause (aumento di O2 nell’atmosfera, problemi climatici, metabolismo, ecc. ?). Scomparsi i grandi Rettili, è stata la volta di certe specie di Mammiferi all’inizio del Quaternario (Pleistocene Superiore). Oltre ai canguri giganti (Procoptodonte) dell’Outback australiano, nel Sud America si svilupparono interessanti “megafaune”. rappresentate da erbivori come il Megaterio, il Gliptodonte ed il Milodonte. Questi mammiferi oggi sopravvivono solo nella forma di lentissimi Bradipi nelle foreste del Sud America. Appartengono agli Xenartri (Sdentati) insieme agli Armadilli ed ai Formichieri. Fossili di grandi erbivori, oltre che nel Sud America, sono venuti alla luce anche in Messico, dopo essere passati attraverso l’istmo di Panama che si era chiuso nel Pliocene e sono stati rinvenuti ancora più a Nord (California).
La prima scoperta dei Milodonti. Charles Darwin, nel suo fantastico giro intorno al mondo sul Beagle, fu il primo a scoprire resti fossili di Milodonti. Il giovane naturalista (che ebbe come impostazione di base una cultura da geologo) nel settembre 1832 si fermò a Punta Alta, poco lontano da Bahia Blanca (Patagonia argentina). Non immaginava a quali importanti scoperte sarebbe andato incontro quel giorno. La costa mostrava, a ridosso della spiaggia, una parete verticale rocciosa di circa 6 metri. Tra le argille rossastre, i ciottoli e le ghiaie, scavando con il suo inseparabile martello, cominciò ad estrarre grandi ossa di animali allora definiti “antidiluviani”! Grande fu la sua meraviglia e l’entusiasmo che lo prese (come ebbe a scrivere nei suoi diari) al punto che era: “… Rimasto la notte a Punta Alta a cercare ossa per 24 ore consecutive. avuta molta fortuna e la notte passata piacevolmente”. Lo aveva aiutato il suo compagno Covington. Il risultato, alla fine, fu abbondante con zanne, artigli ed un grande cranio. Darwin spedì poi i materiali in Inghilterra al prof. Richard Owen, colui che per primo aveva coniato il termine di Dinosauro. Fu proprio Owen che classificò quelle ossa come appartenenti ad un Milodon darwinii. In realtà, nel 1789 il Prof. Bartolomè de Munoz aveva inviato alcuni reperti da Buenos Aires in Spagna e classificati dal Cuvier col nome di Megatherium (= grande animale), ma questi di Darwin appartenevano ad un genere e ad una specie nuova.
La Grotta del Milodonte: origine e scoperta. Questa cavità si apre 24 km a nord di Puerto Natales, in Cile, non lontana dall’Oceano Pacifico. È stata scavata in rocce conglomeratiche che fanno parte della Formazione Silla del Diablo, per l’aspetto che ha un grande blocco di roccia che la tradizione popolare identifica come “sedia del diavolo”. La grotta è lunga 200 metri, larga 80 e 30 l’altezza della volta all’ingresso, per poi abbassarsi sul fondo. L’ambiente è estremamente isolato e fa parte della Provincia Ultima Esperanza (Regione Magellanica ed Antartica Cilena). Nel Quaternario tutta la regione era coperta da vasti ghiacciai e qui, 20.000 anni fa, un grande lago (Sofia) diede origine ad almeno tre cavità, scavandosi la strada nelle rocce del conglomerato pliocenico e nelle argille glaciali a causa delle forti mareggiate sospinte dai violenti venti australi. La cavità venne scoperta da Hermann Eberhard nel 1895, un intraprendente giovane tedesco; costui si era stabilito nell’agosto del 1892 su un terreno di 40.000 ettari, acquistandolo dal governo cileno, a tre chilometri dal fiordo che prenderà il suo nome. Lì aveva creato un grande allevamento di pecore che gli rese, ben presto, molto denaro.
In quell’anno, durante una sua perlustrazione, s’imbatté, nella Silla del Diablo con le sue tre grotte scavate dalle mareggiate del grande lago glaciale pleistocenico. a quei tempi ormai scomparso. Nella “Gruta Eberhard” cominciò a trovare grandi ossa e pezzi di pelle mummificata. Con lui vi era suo cognato Ernst von Heinz e uno svedese (Kondike Hans) con il suo cane. Trovarono un cranio umano insieme ad un pezzo di pelle con pelo ed incrostata di sale. Quel pezzo mummificato Eberhard lo appese ad un ramo e lì rimase per un anno alle intemperie. Esplorando la caverna, i tre raccolsero diversi manufatti e notarono una specie di muricciolo fatto di pietre (secondo quanto riportato da Chatwin). Le ipotesi che si fecero avanti sembrarono propense a ritenere che gli antichi Tehuelche avessero tentato addirittura un addomesticamento di questi bestioni, complessivamente abbastanza innocui. In altre ricerche, in una parte profonda ed asciutta della grotta furono rinvenuti altri manufatti e fasci d’erba come se fossero stati dei foraggi. Da studi di confronto con gli attuali Tardigradi, risulterebbe che la loro arma più micidiale fossero i lunghissimi artigli adatti ad abbracciare rami e tronchi per cibarsi di foglie. Secondo Andrew Chapman (ex Direttore del Museo di Storia Naturale Americano). “…il Milodonte era una montagna di carne, lungo 6 metri e più alto di un elefante. Aveva zampe munite di robusti artigli, una coda enorme e potenti arti posteriori. Nonostante le notevoli dimensioni del suo goffo corpo, era innocuo: usava gli unghioni per procurarsi il cibo, non per combattere…I suoi cibi preferiti erano le foglie e i rami teneri. Era solito allungare una zampa, conficcare gli artigli in un ramo e tirarlo a sé; poi con la lunga lingua prensile – chiamata così perché atta ad afferrare – portava le foglie alla bocca. Qualche volta scavava sino a raggiungere le radici di un albero e le danneggiava tanto da far cadere persino un grosso tronco. Molti scheletri di gravigradi furono ritrovati con le ossa rotte, probabilmente perché gli animali rimasero uccisi in seguito alla caduta dagli alberi. Alcuni gravigradi avevano sotto la pelle tante placche tonde di sostanza ossea, che li proteggevano come un’armatura. Così forse nessuno dei bestioni carnivori di quell’epoca, eccetto la tigre dai denti a sciabola, poteva ferirli.” [questa armatura è stata trovata nei resti di pelle della Cueva del Milodon n.d.r.] Il testo su esposto, è stato estratto dal libro All About Strange Beasts of the Past. Si ipotizza che usassero la caverna come loro tana, alla maniera degli orsi. La loro andatura non doveva certamente essere lenta come l’attuale Bradipo, poiché la cosa non si riscontra né col formichiere né con l’armadillo…anzi. Io stesso in Patagonia, mi son trovato ad inseguire degli Armadilli, dagli spostamenti velocissimi e con una grande forza nelle zampe anteriori. In base ai resti trovati in Nord America (es. Rancho La Brea – Los Angeles), risulta che questi Milodonti hanno risalito quasi tutto il continente americano, adattandosi a climi ed habitat ben differenti. Questa colonizzazione era iniziata 4 milioni e mezzo di anni fa, non appena l’Istmo di Panama si era chiuso: una risalita di oltre 10.000 km in linea d’aria in poche migliaia di anni !
Eberhard, abbiamo detto, aveva lasciato appeso ad un ramo un brandello di pelle che, l’anno dopo (1896), fu ritrovato dallo svedese Otto Nordenskjold, geologo ed esploratore polare. Lo scienziato, che stava effettuando una spedizione nelle “Terre Magellaniche”, visitò la grotta e raccolse numerosi campioni che trasportò successivamente in Svezia. Durante il suo soggiorno a Buenos Aires annunciò la scoperta e negli anni successivi effettuò una serie di scavi sistematici, dove mise alla luce tre strati sovrapposti: il superiore conteneva resti di abitazioni umane e manufatti (databili a 8000 anni b.p.); quello di mezzo con ossa di specie animali estinte, fra cui un equide primitivo (Hippidion saldiasi), mentre nel terzo strato furono trovati i resti del milodonte (Neomylodon listai). Durante una visita alla grotta, il Dr. Francisco Moreno (accompagnato dal Dr. Racowitza, noto zoologo rumeno, arrivato con la Spedizione “Belgica”) ricevette in dono da Eberhard il famoso pezzo di pelle, che per tanto tempo era stato esposto e che da allora troneggia in una vetrina del suo museo a La Plata. Al fossile lo zoologo di Stoccolma Einar Lonnberg, attribuì il nome di Neomylodon listai Ameghino, in onore del naturalista italo-argentino di Buenos Aires. Iniziò a circolare l’ipotesi che questi grandi mammiferi potessero ancora essere viventi tra Argentina e Cile. Lo stesso Florentino Ameghino, che con le sue collezioni aveva donato a Buenos Aires un museo ricchissimo di reperti, fu attratto dall’ipotesi di poter ritrovare esemplari viventi di megafauna. Hesketh Prichard, un britannico, organizzò una spedizione sperando di catturarne uno vivo, senza però risultati positivi. Molto tempo dopo, grazie alla tecnologia con isotopi radioattivi (C14), nei laboratori del Museo di La Plata la pelle mummificata fu datata a 11.000 anni b.p. Durante una mia visita effettuata durante la Spedizione Terra del Fuoco-Alaska, nel 2008, visitai la grotta. Ancora si vedono i numerosi segni di scavo che hanno sconvolto il pavimento della cavità. Tracce di pelo affiorano qua e là. Vi sono ancora parti laterali che meriterebbero un saggio di scavo, anche se la volta è bassa. Nel Museo di La Plata vi sono vari esemplari di megafauna pleistocenica patagonica. In una vetrina è conservato un brandello di pelle con lunghi peli biondi e diversi coproliti (feci fossili) di Xenatri provenienti dalla Cueva del Milodon. Non lontano dalla famosa caverna vi è una serie di piccole grotte formatisi nei conglomerati della Silla del Diablo. In queste cavità abbiamo osservato alcuni semplici disegni sulla roccia che hanno lasciato tribù locali antiche (Teuhuelche?), ma purtroppo non si possono collegare (per ora) queste pitture rupestri alla presenza dell’Uomo all’epoca dei Milodonti. Tuttavia, per onor di cronaca, Francisco Ameghino pubblicò un libretto in cui aveva raccolto diverse notizie dagli indios e dai viaggiatori: storie e leggende fantastiche? Tra queste vi sono gli incontri con un essere chiamato Yemische, la cui descrizione lo farebbe coincidere col Milodonte. A tal riguardo recentemente, a Bologna, si sta analizzando la corazza di un grande gliptodonte che il Prof. Giovanni Capellini fece arrivare al suo museo dall’Argentina. Lo scopo è quello di individuare eventuali segni lasciati da strumenti preistorici su tale animale, nel tentativo di risolvere l’annoso problema. Si fa presente, tuttavia, che il sito di “Piedra” nel Santa Cruz (Argentina) è oggi datato 13.000 b.p., mentre in Cile quello di “Monte Verde” (Puerto Montt – Cile) è vecchio di 33.000 anni! Oggigiorno prende sempre più credibilità l’ipotesi secondo cui l’Uomo avrebbe potuto cacciare i Gliptodonti e i Milodonti, contribuendo alla loro estinzione, ma si può affermare che ancora mancano prove sistematiche. Il fascino di queste enormi plaghe disabitate, e battute dal gelido vento della Patagonia che sale dall’Antartide, continua a destare l’inconfondibile sensazione di una terra selvaggia, definita giustamente “La fin del Mundo”.
Testo/Foto Giuseppe Rivalta