La vediamo già da qualche chilometro di distanza mentre attraversiamo la Zona di esclusione intorno alla centrale di Chernobyl, stipati nel piccolo furgone guidato da Igor, la nostra abile e taciturna guida militare in questi giorni passati nel nord dell’Ucraina. La vediamo da lontano, tanto è enorme, con i suoi 150 metri di altezza e quasi 900 di estensione. Una gigantesca, complessa e affascinante antenna, una delle più grandi opere costruite durante la Guerra fredda da quella lunga utopia sociale, militare e scientifica che fu il regime sovietico.Dopo essere passati attraverso numerosi check-point militari, dovuti alla presenza della centrale di Chernobyl a pochi chilometri di distanza, arriviamo a un cancello di metallo verde decorato dalla stella a 5 punte del Komintern, uno dei simboli del comunismo. Di fianco, una guardia ucraina ci sorride dal classico gabbiotto militare, mentre una targa ministeriale in cirillico ci avvisa che qui ci troviamo nel distretto di Chernobyl-2. Igor impiega pochi minuti a sbrigare le minime formalità per entrare: le guardie conoscono già da qualche giorno i nostri nomi, che cosa siamo venuti a fare e la data del nostro arrivo.
L’atmosfera risulta rilassata, le paranoie e i segreti dei primi anni del post comunismo se ne sono ormai andati, ma l’intera struttura, le divise delle guardie, il clima che ci circonda sembrano ancora ferme agli anni del sogno sovietico. A leggere le carte geografiche dell’epoca, in questa zona si trovava solo un enorme campo estivo per i Giovani pionieri (l’equivalente sovietico dei Boy-Scout). Non era vero, naturalmente, e gli abitanti della zona lo sapevano, o almeno lo sospettavano, dal momento che già allora era impossibile non notare quella mastodontica antenna radio visibile a chilometri di distanza e la severa sorveglianza militare della zona, inusuale per un semplice campo di Giovani pionieri. Lo scenario dell’epoca, dopo la Seconda guerra mondiale, vedeva opposti da una parte i paesi occidentali della NATO del Patto Atlantico e dall’altra il blocco sovietico orientale del Patto di Varsavia, con in cima le due superpotenze dell’epoca, USA e URSS, impegnate in una sorta di insolita Guerra fredda. Vista la presenza di arsenali atomici in dotazione alle due superpotenze, l’equilibrio di allora si reggeva su una precaria minaccia di mutua distruzione, che per fortuna non si concretizzò mai in un vero e proprio conflitto, trovando una valvola di sfogo nei campi scientifici, militari, ideologici, politici e tecnologici. Fu anche un vantaggio: la serrata rivalità tra USA e URSS portò ad una corsa al progresso che generò la terza rivoluzione industriale.
In questo clima di diffidenza e rivalità, a partire dai primi anni ’60 nell’Unione Sovietica iniziarono a progettare un sistema radar in grado di percepire il lancio di un missile a grandi distanze. Non fu un’impresa facile: all’epoca i satelliti erano quasi fantascienza, e i sistemi radar, già di raggio piuttosto ridotto, avevano anche il limite di estendersi solamente in linea retta e di dover essere piazzati, per questo, il più in alto possibile. Venne quindi sviluppato un sistema a onde corte OTH (Over The Orizon) che, come dice il nome, era in grado di superare la linea dell’orizzonte riflettendo il segnale sugli strati alti della ionosfera, utilizzandoli come una sorta di specchio riflettente. Il sistema, perfezionato negli anni seguenti, permetteva di estendere il segnale a distanze prima impossibili, captando il lancio di eventuali missili con un anticipo sufficiente a organizzare una reazione sovietica. Nel corso della Guerra fredda, Konstantin U. Tchernenko e Jurij V. Andropov ( entrambi ricoprirono la carica di Segretario generale del Partito comunista dell’Unione sovietica) andavano ripetendo ai paesi della NATO che “prima che le vostre bombe nucleari possano raggiungere il nostro territorio, noi vi avremo da tempo annientato”. Solo in seguito alla caduta dell’URSS si sarebbe scoperto che i due non mentivano affatto.
Il primo sistema a essere costruito fu la Duga (Arco)-1 nei pressi di Mykolaïv, in Ucraina, a 30 chilometri dai villaggi di Kalynivka e Luch. Fu solo una sorta di prototipo, inevitabilmente destinato ad evolversi poi nella Duga-2, situata nella stessa zona e già in grado di percepire il lancio di un missile, inclusi quelli lanciati dai sottomarini atomici, a 2500 chilometri di distanza. Questa Duga-2 fu una conferma: il sistema funzionava, anche se aveva bisogno ancora di qualche regolazione e di più potenza. Il terreno era ormai pronto per lo sviluppo della più grande, potente ed efficiente antenna mai costruita, dotata di un sistema di trasmettitori e ricevitori situati a 6o chilometri di distanza reciproca. Potenziando il già vastissimo raggio sperimentato dalla precedente antenna, questa nuova Duga-3 fu in grado già a metà degli anni ’70 di proiettare il segnale radio fino a 9000 chilometri di distanza, un traguardo prima impensabile. Ovviamente una struttura cosi monumentale aveva bisogno di una manutenzione altrettanto massiccia: 2000 persone tra tecnici, soldati, ingegneri, scienziati e addetti vari, divisi in numerosi laboratori ed edifici che vediamo ancora oggi, abbandonati e dispersi nelle foreste immediatamente vicine alla colossale antenna.
Ci muoviamo ora tra queste foreste, notando a tratti alcuni rari mezzi militari rimasti abbandonati e inattivi, altra testimonianza della struttura sovietica degli anni ’80. La quasi totalità dei mezzi di trasporto sovietici, sia militari che civili, venne infatti sepolta in centinaia di fosse sparse nel nord dell’Ucraina in seguito all’incidente del reattore 4 della centrale di Chernobyl (che tra parentesi forniva alla Duga-3 tutta la massiccia energia elettrica della quale necessitava l’intero complesso). Il metallo dei mezzi, infatti, fu una perfetta spugna per assorbire le radiazioni. Dopo aver attraversato alcune abitazioni e uffici abbandonati, ma ancora pieni di numerose testimonianze quotidiane del regime sovietico (in seguito all’incidente nella centrale fu proibito portare via qualsiasi oggetto da queste zone), arriviamo esattamente alla base della Duga-3, che si apre alla nostra vista quasi all’improvviso, dopo essere usciti dalla foresta.
Nonostante la mole dell’antenna si fosse già rivelata gradualmente a mano a mano che ci avvicinavamo alla sua posizione, nulla ci aveva realmente preparati alle dimensioni di questa massa di acciaio. Credo che non ci sia nessun’altra opera creata dall’uomo, in tutto il territorio dell’ex Patto di Varsavia, in grado di rendere allo stesso modo l’idea della megalomania e dei sogni di grandezza dell’Unione Sovietica. Sembra quasi di trovarsi alla base di una gigantesca muraglia cinese di cavi, reticolati, antenne e trasmettitori, mai smantellata (a differenza di molti altre testimonianze della Guerra fredda) perché si temeva che le scosse telluriche causate dallo smantellamento di una simile massa avrebbero danneggiato il sarcofago del reattore 4 della vicina centrale di Chernobyl. Le dimensioni dell’antenna e la sua complessità di progettazione ci ricordano anche che, all’epoca della piena attività, i segnali radio di buona parte della superficie terrestre erano disturbati da una sorta di ripetuto e fastidioso suono ritmico, simile al picchiettare di un uccello contro la corteccia di un albero.
Era il segnale a 10 Hz, del quale all’epoca non si riuscì mai a identificare la causa e il punto esatto di provenienza, generato proprio dalla Duga-3 e talmente potente da essere avvertito non solo da radio amatoriali a bassa potenza, ma anche emittenti professionali come Radio Vaticana e BCC. Alcune aziende sovietiche tentarono di limitare l’effetto del disturbo (che ormai aveva fatto guadagnare alla Duga-3 il soprannome di Woodpecker, picchio), fabbricando televisori e radio di fascia alta, con sistemi di schermatura appositamente progettati per ridurre i disturbi provocati dal segnale. Oggi sappiamo che l’esistenza delle tre antenne Duga fu uno dei segreti meglio custoditi del regime sovietico, al punto che si iniziò a sapere la verità solo dopo il crollo dell’URSS, nei primissimi anni ’90. Anche se gli americani, in particolare la CIA grazie ai primissimi satelliti in orbita, avevano notato la presenza di una massiccia costruzione di metallo nel nord dell’Ucraina, che avrebbero poi nominato Steel Yard (acciaieria). All’epoca, l’impossibilità di definire esattamente cosa fosse quella massa di antenne e metallo, oltre alla consueta dose di diffidenza che caratterizzava il clima da Guerra fredda, portarono a improbabili teorie sull’esistenza di sistemi sovietici di controllo climatico, mentale e telepatico, in parte riuniti sotto il nome di “Brain Scorcher”.
Ma la storia, soprattutto quella geopolitica, da sempre si evolve e cambia, spesso in modo improvviso e imprevedibile. Verso la fine degli anni ’80 il blocco sovietico era ormai giunto all’apice di una serie di gravi problemi, iniziati con l’incidente di Chernobyl il 26 aprile del 1986 e culminati, tre anni dopo, con il crollo del famoso muro di Berlino. Il sogno sovietico era ormai finito, e con esso si rendeva inutile il mantenimento delle strutture del regime comunista, inclusa la Duga-3, il cui utilizzo era andato calando negli ultimi anni anche grazie allo svilupparsi delle tecnologie satellitari che, oltre a rendere ormai obsoleta la tecnologia OTH, erano molto più precise, economiche e prive di segnali di disturbo. Inoltre, sembra che il sistema dell’antenna avesse iniziato a dare problemi, sin dal famoso incidente nella centrale. Queste, almeno, sono le spiegazioni ufficiali. In verità, mentre ci muoviamo alla base della Duga-3, ancora stupiti dalle sue dimensioni e dalla complessità della costruzione, circondati da così tante testimonianze del sogno sovietico, vengo a sapere anche un’altra teoria da Francesca Dani, la preziosa organizzatrice che, insieme a Igor, ci ha guidati in questa interessante avventura nella Zona di esclusione.
Sembra che il segnale della Duga-3, dovendo per la via più breve passare attraverso il polo nord per raggiungere i territori degli Stati Uniti d’America, venisse completamente bloccato dall’Aurora boreale. Questo straordinario e affascinante fenomeno atmosferico, infatti, emetteva già allora un segnale elettromagnetico in grado di interferire gravemente con il segnale OTH emesso dall’antenna sovietica. Sette miliardi di rubli (il doppio di quanto fu speso per costruire la centrale di Chernobyl), migliaia di persone impiegate sia nella costruzione sia nel mantenimento, tonnellate di metallo utilizzato, oltre alla necessità di alimentarsi tramite una centrale nucleare vicina, per poi ritrovarsi con una struttura immensa, avveniristica, quasi perfetta dal punto di vista dell’ingegneria, ma con il suo scopo primario, l’intercettazione dei missili statunitensi, completamente annullato da un fenomeno atmosferico a centinaia di chilometri di distanza. Se questa teoria venisse confermata, non stupirebbe allora tutta la cortina di segretezza con la quale l’Unione sovietica volle nascondere la chiusura di questa immensa antenna, ancor più di quanto si impegnò nel tenerne segreta l’esistenza durante gli anni della Guerra fredda.
Solo l’esplorazione delle terre dell’ex URSS e il vedere dal vivo questi enormi, ma ormai malinconici reperti della Guerra fredda, possono rendere l’idea dell’utopia sovietica, più di quanto potrebbe mai fare qualsiasi libro di storia, qualsiasi fotografia, racconto o reportage. Noi l’abbiamo esplorata nel principio dell’estate, quando si presenta circondata dal verde delle foreste e da un cielo sereno. D’inverno, mi dicono, con gli alberi spogli, la neve e il freddo, la malinconica atmosfera rende queste zone ancora più simili a un’istantanea ferma agli anni ’70 del comunismo sovietico.
Testo/foto Emiliano Federico Caruso