Per gli appassionati dell’Antico Egitto la figura di Giovanni Battista Belzoni è ben conosciuta e rappresentata. Molti autori hanno scritto sulle sue ricerche eseguite nella terra dei Faraoni, grazie alle quali nel corso degli anni si sono moltiplicate le pubblicazioni che lo riguardano. Autorevoli biografie, mostre e documentari hanno indagato a fondo sulla vita di questo personaggio, nato a Padova il 5 novembre 1778, dalla statura imponente e una forza incredibile, rivelando le leggendarie imprese che gli consentirono di passare alla storia. Le motivazioni che portarono Belzoni in Egitto erano ben lontane dall’archeologia o dalla ricerca di antichità. Dopo un passato come attore teatrale nei panni dell’uomo forzuto che si esibiva in costume con i fantasiosi nomi di Ercole Romano o Sansone Patagonico, si dedicò all’idraulica e progettò una macchina per il sollevamento dell’acqua che nelle sue intenzioni avrebbe permesso l’irrigazione meccanica delle campagne, alleviando così la sfiancante vita dei fellàhin, i contadini della valle del Nilo.
Giovanni approdò ad Alessandria d’Egitto il 9 giugno 1815 assieme alla moglie Sarah e a un domestico irlandese, James Curtin. Il 5 luglio raggiunse il Cairo con i progetti da presentare a Mohamed Ali Pasha, viceré d’Egitto e indiscusso padrone di tutto il paese. Per quasi tutto il primo anno di permanenza Belzoni e compagni rimasero al Cairo principalmente per la preparazione della macchina idraulica, ma anche per le difficili condizioni politiche e per gravi problemi sanitari presenti nel paese.
Riguardo la struttura per il sollevamento dell’acqua le cose non filarono per il verso giusto: alla prova dei fatti il meccanismo (una grande ruota) si inceppò provocando addirittura la rottura di una gamba dello stesso Curtin. Per tali ragioni Belzoni venne senza tante cerimonie congedato e lasciato a meditare sulle proprie sfortune.
Il fato però giunse in aiuto del padovano. In quegli anni l’Egitto era un vero crocevia di persone d’ogni levatura: diplomatici occidentali, viaggiatori, avventurieri, esploratori, commercianti, ecc. Il caso volle che nella residenza di Yussef Boghos, interprete e segretario privato di Mohamed Ali, Belzoni fu presentato al grande viaggiatore svizzero Johann Ludwig Burckhardt, già scopritore della città di Petra in Giordania, conosciuto anche come Sheikh Ibrahim ibn ʿAbd Allah, in quanto aveva abbracciato la fede islamica e adottato un nome consono al nuovo status e di conseguenza sfruttare la possibilità di viaggiare indisturbato nei paesi arabi. Belzoni e Burckhardt entrarono immediatamente in sintonia diventando buoni amici. L’italiano descrisse le proprie disavventure allo svizzero e questi di buon grado cercò di aiutarlo narrandogli le esplorazioni compiute e magnificando le ricchezze archeologiche disseminate ovunque in Egitto. Inoltre lo mise al corrente di essersi imbattuto, risalendo il Nilo ai confini con la Nubia, nelle rovine di un tempio rupestre fronteggiato da quattro statue colossali e semisommerso dalla sabbia. Quei racconti stimolarono la curiosità di Belzoni e in seguito lo spinsero ad inoltrarsi in profondità nel paese.
L’occasione si presentò quando al Cairo giunse il console-generale inglese Henry Salt il quale, in conformità con la consuetudine in atto fra i diplomatici dei paesi stranieri di raccattare quante più antichità egizie possibili, stipulò un contratto con Belzoni affinché agisse per lui. Iniziò in questo modo per il gigante italiano l’attività di ricercatore e collezionista di reperti archeologici. Ma iniziarono anche altre difficoltà di carattere diplomatico, in quel periodo infatti l’egemonia delle ricerche di antichità era appannaggio dei francesi il cui potente console-generale era il piemontese Bernardino Drovetti.
Belzoni, essendo di parte inglese e quindi considerato pericoloso concorrente, subì pesanti boicottaggi. Nei successivi tre anni dovette affrontare una serie di angherie e complotti orditi a suo danno dagli agenti di Drovetti.
Il primo incarico, finanziato congiuntamente da Salt e Burckardt, consisteva nel recupero di un enorme busto di statua, già segnalato dallo svizzero, e raffigurante secondo l’interpretazione dell’epoca, “il giovane Memnone”. Il monumento giaceva fra le rovine del Ramesseum, il tempio tebano di Ramesse II, sulla riva occidentale del Nilo a Luxor, e oggi sappiamo che in realtà si trattava della porzione di una statua con le sembianze del faraone splendidamente realizzata in un blocco striato di granito misto nero rossastro.
Verso la fine di giugno del 1816 Belzoni partì dunque alla volta di Luxor dove noleggiò una sorta di chiatta per realizzare un’impresa che sembrava impossibile. Una volta al Ramesseum cercò di ottenere manodopera locale per spostare il colosso fino alle rive del fiume. In seguito ad estenuanti trattative con le autorità locali riuscì ad avere gli agognati operai e il 27 luglio, sotto un sole cocente, poté dare inizio alle operazioni di rimozione del busto. Il monolito pesava più di sette tonnellate ma Belzoni, per nulla impensierito e con le idee ben chiare, aveva fatto approntare una serie di rulli di legno e dopo averli posizionati sotto la statua avviò il trascinamento. Nonostante una serie di intoppi e inconvenienti il 12 agosto il busto giunse sulle rive del Nilo dove sarebbe stato poi imbarcato sulla chiatta e spedito al Cairo ed infine, dopo altri 17 mesi, sarebbe giunto a Londra. Oggi quel mirabile capolavoro dell’arte scultorea egizia fa bella mostra di sé nella galleria di antichità egizie del British Museum.
In seguito al successo di quell’impresa Belzoni ne intraprese molte altre. Fra queste ricordiamo l’apertura di sei tombe di epoca faraonica nella Valle dei Re, fra le quali quella del faraone Seti I dalla quale recuperò il meraviglioso sarcofago in alabastro oggi conservato a Londra presso il Soane Museum; la liberazione dalle sabbie che ostruivano l’ingresso del gigantesco tempio rupestre di Ramesse II ad Abu Simbel, ai confini con la Nubia; l’individuazione dell’ingresso della Piramide di Khefren a Giza. Imprese memorabili che dimostrano la caparbietà e l’efficienza del nostro connazionale.
E che dire di Sarah, la moglie inglese di Belzoni? Donna eccezionale che fu sempre al fianco del marito o attendendo anche per mesi il suo ritorno dalle spedizioni nell’Alto Egitto, sopportando disagi e privazioni senza mai lamentarsi. A lei si deve la salvaguardia della tomba di Seti I nel corso di una delle rarissime tempeste che si scatenano talvolta nella valle del Nilo. In uno di quegli eventi la necropoli reale fu colpita da una disastrosa inondazione che causò l’allagamento del sepolcro di Seti, aperto da poco tempo. Sarah prese in mano la situazione e con l’aiuto di alcuni operai procedette all’asportazione di tutto il fango che si era depositato all’interno, impedendo così che i meravigliosi dipinti subissero irreversibili danni a causa dell’evaporazione.
Nel 1819, dopo quattro anni di permanenza in Egitto, i Belzoni tornarono in Europa ed organizzarono in Inghilterra una serie di esposizioni di grande successo fra il pubblico.
Poi, nel 1823, Giovanni decise di tuffarsi, questa volta senza sua moglie, in un’altra avventura: raggiungere la misteriosa Timbuctù partendo dal regno del Benin (l’attuale Nigeria). Qui purtroppo la sua forte fibra fu minata da una delle più letali malattie tropicali dell’epoca, la dissenteria, i cui nefasti effetti segnarono il destino del nostro “Sansone Patagonico”. Nel pomeriggio del 3 dicembre 1823, dopo diversi giorni di agonia, in una misera capanna a Gwato (o Gato, l’odierna Ughoton), assistito da alcuni marinai inglesi, il cuore di Giovanni Battista Belzoni cessò di battere. Gli ultimi pensieri furono per la sua adorata moglie, egli affidò infatti l’anello che soleva portare con una lettera di addio al mercante John Houtson (o Hogdson) affinché li facesse recapitare a Sarah.
Belzoni fu sepolto in una fossa profonda un paio di metri scavata sotto un enorme albero. Sulla tomba venne apposta una iscrizione che invitava chiunque fosse giunto fin lì di effettuare le eventuali opere di restauro affinché l’ultima dimora del famoso viaggiatore venisse conservata al meglio. Purtroppo nel giro di qualche decennio tutto finì per essere dimenticato e infine disperso. Nell’agosto del 1862 il grande esploratore inglese Richard Burton fu probabilmente l’ultimo a tentare di localizzare il luogo della sepoltura di Belzoni. Si trattò di una ricerca vana perché risultò impossibile rintracciare il tumulo, gli stessi abitanti del sito non furono in grado di indicarglielo con esattezza e alla fine egli rinunciò all’impresa definendo la zona come “tabula rasa”. Forse, oggi, le spoglie di quello straordinario personaggio giacciono ancora nello sperduto sepolcro in terra africana.
Ma in Egitto, ai giorni nostri, vi sono ancora tracce del passaggio di Giovanni Belzoni? Ebbene sì. Percorrendo il paese è possibile di tanto in tanto imbattersi su pareti rocciose o monumenti nella sua firma. L’iscrizione più vistosa è certamente quella presente nella camera sepolcrale della Piramide di Khefren a Giza, che Belzoni scrisse dopo aver individuato l’ingresso ed essere penetrato all’interno del monumento chiuso da secoli. Egli ritenne necessaria quella rivendicazione in seguito all’attacco subito da alcuni viaggiatori francesi nel subdolo tentativo di sminuire le scoperte da lui compiute. In un evidente moto di reazione tracciò con vernice a caratteri cubitali il testo con le parole: Scoperta da G. Belzoni. 2 mar. 1818, in questo modo volle essere certo che nessuno avrebbe messo in dubbio la paternità della sua scoperta.
Oltre che nella piramide di Khefren esistono graffiti di Belzoni incisi nei pressi di altri monumenti, come nella sala ipostila e sul retro di una statua del Ramesseum a Tebe ovest, alla Valle dei Re nelle tombe di Seti I e Ay, nella tomba rupestre di Paheri a El Kab e nel colossale tempio di Abu Simbel sul Lago Nasser.
Il British Museum conserva molti dei monumenti recuperati dal padovano nella terra dei faraoni. Le mirabolanti scoperte di Giovanni Battista Belzoni sono diventate parte integrante e indissolubile della storia dell’Egittologia.
Testo/Claudio Busi – Foto/Archivio dell’autore e British Museum Archives