«La razza umana esiste da almeno 200.000 anni, eppure la storia compresa tra 75.000 e 6.000 anni fa ci è praticamente sconosciuta» dice Carlos Alberto Bisceglia nella presentazione di questo libro che «Tira fuori dai cassetti dei centri di ricerca i documenti sul nostro passato e li rende pubblici». In quanti si sono chiesti se fosse possibile che sulla Terra non siano esistite altre civiltà prima della storia conosciuta? E magari fantasticare su avanguardie di “popoli delle stelle” in esplorazione nello spazio cosmico e approdate in tempi remoti qui, lasciando un’impronta genetica nei nostri lontani antenati? Fantasia, realtà? E se ci fossero veramente nel nostro Dna stringhe di memoria su un lontano passato, che potrebbe riemergere in un dèjà-vu, come spesso accade ai bambini?
Risposte a domande rimaste spesso inevase, anche alla luce delle misteriose scoperte che sempre più ci fanno pensare che non siamo soli nell’Universo. In Homo Reloaded e gli altri libri sui misteri dell’uomo pubblicati dall’autore, si potrebbero trovare gli strumenti per leggere con un’altra chiave interpretativa la nascita dell’Universo e la storia delle nostre origini. Cercando di dare un senso a quei dubbi atavici che ebbe anche il pittore Paul Gauguin, ed espressi nel suo famoso dipinto “D’où venons-nous, qui sommes-nous, où allons-nous”: «Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?
Ma veramente siamo nati da un’esplosione cosmica? A dar retta ai dettami dei vari culti religiosi – a parte il buddismo o i proseliti della cosiddetta New Age – l’Universo è stato creato a una data certa ma in tempi diversi. L’assioma principale sull’origine di tutto si basa sulla Teoria del Big Bang, cioè un’esplosione di materia e gas avvenuta 15 miliardi di anni or sono. Teoria oggi messa in discussione in particolare dalla cosiddetta Teoria M (M-theory) ipotizzata dal matematico e fisico statunitense Edward Witten nel 1995. Si tratta di una “teoria completa dell’universo” che prende avvio dalla Teoria delle stringhe, che nel 1968 ha visto tra i padri fondatori il fisico italiano Gabriele Veneziano e tra gli scienziati che hanno contribuito ai suoi sviluppi, Yoichiro Nambu, Holger Bec, Nielsen e Leonard Susskind, John Schwarz e Joël Sherk (L’argomento è trattato nel primo capitolo di Homo Reloaded: Origini). Tutti i “poteri” cercano di sopravvivere ai cambiamenti sociali cristallizzando nel tempo teorie di comodo, spesso affidate a “testi sacri”. In questo non ha fatto eccezione la Chiesa cattolica, con la difesa a oltranza della teoria geocentrica del sistema solare, tanto da mandare al rogo i sostenitori dell’eliocentrismo come Giordano Bruno e costringendo all’abiura Galileo Galilei. Ma cosa portava gli antichi astronomi a scrutare il cielo stellato dai loro osservatori? Oggi sappiamo che oltre la Via Lattea ci potrebbero essere milioni di galassie, per cui è statisticamente possibile che in ere lontane ci possano essere stati “incontri ravvicinati del terzo tipo”.
Secondo la scienza la Terra avrebbe circa 4,5 miliardi di anni e dagli ultimi ritrovamenti in Marocco, i primi “ominidi” potrebbero essere comparsi 300mila anni fa. Allora è mai possibile che in questo lungo periodo terminato con la fine dell’ultima glaciazione, non siano esistite sulla terra altre civiltà di cui oggi abbiamo perso le tracce? Quanto può essere vero il racconto del filosofo e scrittore ateniese Platone (V-IV sec. a.C.), quando parla della fine di un continente leggendario denominato Atlantide, che sarebbe esistito oltre le Colonne d’Ercole nel 9600 a.C. e scomparso dopo un cataclisma? Oggi, alla luce delle nuove scoperte sappiamo che nei racconti fantastici di Jules Verne scritti nel XIX la fantasia ha lasciato spazio a delle realtà. Se in Viaggio al centro della Terra Verne racconta delle vicissitudini di un gruppo di persone guidate da uno scienziato lungo un percorso sotterraneo, scoprendo un “mondo di sotto” pieno i fascinazioni e vita, non diversa dovrebbe essere stata la scoperta di città sotterranee a oltre 85 metri di profondità con circa 18 livelli come Derinkuyu, in Cappadocia, la più famosa tra le 200 individuate in Turchia. Un vero formicaio con ampie sale, corridoi, stanze e pozzi di ventilazione. Qualcosa di simile sono state le 24 grotte artificiali collegate tra loro, scoperte nel 1992 sotto la collina di Fenghuang a Longyou (Cina).
Anche in Guatemala, sotto il complesso piramidale Maya di Tikal, è stata scoperta una rete di circa 800 chilometri di tunnel e sotto l’altopiano di Giza pare ci sia una città sotterranea con gallerie, pozzi, caverne e camere. La datazione è incerta e c’è chi ha ipotizzato che potrebbe risalire a 150 secoli fa. Ne aveva parlato anche lo storico greco Erodoto (V sec. a.C.) e la conferma della scienza è arrivata nel 1978 quando un gruppo di scienziati internazionali ha effettuato una serie di scansioni con il georadar.
Scoperte che avranno sicuramente gratificare i sostenitori della “teoria della Terra cava”, ma chi ha realizzato e a che servivano queste città sotterranee? Un’ipotesi avanzata nel libro fa riferimento alla loro origine come difesa degli uomini dall’ultima glaciazione di circa 12 mila anni fa, chiamata dagli scienziati “Younger Dryas”. Ma come avrebbero fatto i nostri lontani antenati a scavare quei milioni di metri cubi di roccia senza le idonee attrezzature?
Clipeologia o paleoastronautica: ma l’arte è veramente rivelatrice?
Viviamo in un’immersione mediatica che ci veicola tutto e il suo contrario. Non si trova una spiegazione scientificamente plausibile sull’origine dei misteriosi cerchi nel grano (crop circles) che compaiono nelle campagne, centinaia di figure complesse troppo perfette per essere fatte artigianalmente, che la matematica chiama frattali: sono di origine aliena? L’ipotesi è stata ripresa da quando il Pentagono Usa ha pubblicato a metà 2021 un rapporto su avvistamenti di Ufo da parte di piloti militari negli ultimi 20 anni, confermando che dei 144 contatti visivi esaminati, 143 potrebbero effettivamente essere di origine extraterrestre. Come a dire: non siamo soli nell’Universo.
Di questo ne sono convinti anche i sostenitori della clipeologia o la paleoastronautica, teorie pseudoscientifiche che sostengono come nel nostro lontano passato ci sarebbero stati contatti tra civiltà extraterrestri e le antiche civiltà umane. Alla base di tutto ci sono i ritrovamenti di manufatti, graffiti, disegni, statuine e reperti documentali riferibili a diverse culture, dove sono presenti enigmatiche figure attribuite a “dei” arrivati dal cielo. Una delle più accreditate già dalla metà del 1900 è la Teoria degli antichi astronauti (o paleoastronautica), sostenuta in particolare dal suo massimo divulgatore, lo scrittore svizzero Erich Anton Paul von Däniken e dal giornalista e scrittore Peter Kolosimo, che tra i 25 libri sull’argomento ha pubblicato anche “Astronavi sulla Preistoria”.
Tra gli elementi portati a loro sostegno, “L’astronauta di Palenque”, un bassorilievo rinvenuto nel “Tempio delle Iscrizioni”, la maggiore delle piramidi a gradini della civiltà Maya (Chiapas-Messico).
Oppure le raffigurazioni rupestri, dal Sahara algerino alla Val Camonica o il “dogu” giapponese conservato nel Museo nazionale di Tokyo. Ma anche indizi individuati su antiche opere d’arte, che però alla verifica si sono dimostrati tutt’altro. Come quelli analizzati nell’articolo dell’8 maggio 2021 “UFO dal passato: la prova nei quadri”, riportato sul sito del Cicap (www.cicap.it), firmato da Giuliana Galati, coordinatrice del “Corso per Indagatori di Misteri” e membro del Consiglio Direttivo del Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze). Nato nel 1989 grazie a Piero Angela e un gruppo di scienziati, intellettuali e appassionati, il Cicap analizza eventi misteriosi o fenomeni paranormali con il metodo scientifico per verificarne la veridicità.
Tutti i casi riportati nell’articolo e confutati hanno riguardato l’ipotetica presenza di oggetti “Ufo” in antiche opere come “Madonna con Gesù bambino e il piccolo San Giovanni” che si trova nella Sala di Ercole di Palazzo Vecchio a Firenze o l’iconografia sulla vita e morte di Cristo detto “Le Marie al Sepolcro”, tratta da un reliquiario conservato nel Museo Sacro Vaticano a Roma. Ma la certezza si sarebbe trovata per la paleoastronautica, nella “Fondazione della Basilica di Santa Maria Maggiore”, parte centrale di quello che fu la “Pala Colonna”, un polittico tempera su tavola realizzato a inizio V secolo da Masolino da Panicale e Masaccio ed esposta nel Museo di Capodimonte a Napoli. In esso sembrerebbe che Cristo e la Madonna a bordo in un Ufo guidino una flotta di veicoli alieni nella scena della “nevicata” nella notte del 5 agosto 358 sull’ Esquilino, con Papa Liberio e i coniugi che avevano finanziato la costruzione della Basilica romana. Le conclusioni del Cicap sono state che quelle forme altro non sono che nuvole stilizzate come in uso a quel tempo e che quello sullo sfondo de “Le Marie al Sepolcro”, sarebbe invece la cupola dell’edificio originario che proteggeva il luogo sacro. Però, per gli studiosi di clipeologia – scrive l’autrice – «L’insolita nevicata è stata provocata dagli stessi Ufo e non sarebbe stata una semplice nevicata, dato che non è possibile nevichi ad agosto. Secondo loro si tratterebbe di bambagia, chiara e forse appiccicosa, scambiata per neve. Ogni pezzo del mistero sembra trovare così risposta».
Le linee di Nazca. Di messaggi dall’antichità ancora da interpretare ce ne sono molti, come le “linee di Nazca” in Perù , enormi disegni realizzati migliaia di anni fa su un’area grande fino a 800 kmq nel deserto di Acatama. Si tratta di un altopiano a 3mila metri di altezza, dove si insediò un popolo tecnologicamente molto emancipato arrivato lì forse 30mila anni fa dalla Siberia (come verificato dal Dna preso da alcune mummie). Geoglifi realizzati spostando le pietre scure di cui sono ricoperte le superfici e facendo così affiorare la sabbia chiara sottostante. Solchi poco profondi che danno vita a circa 13 mila linee e grandi figure geometriche, con quasi 800 disegni antropomorfi e zoomorfi, complessi e giganteschi, visibili solo da centinaia di metri d’altezza. Per cui c’è da chiedersi: per chi e per quale scopo furono realizzati?
Tra le figure emblematiche analizzate da Carlos Alberto Bisceglia nel libro (cap. 8 – Prima dei Maya), la balena disegnata con grande precisione, triangoli paragonabili ad astronavi e la figura umanoide detta l’astronauta che sembrerebbe indossare casco e tuta. Ma come facevano le popolazioni degli altopiani a conoscere un mammifero marino come la balena, se non avendo la conoscenza di antiche tradizioni marinare?
I misteri dei megaliti e le costruzioni impossibili
Mi sono sempre chiesto come avessero fatto le antiche civiltà a trasportare quei blocchi enormi, per fare obelischi, piramidi, mura e megaliti in tutto il mondo come i dolmen e menhir di Stonehenge. Per esempio, una civiltà come quella egizia avrebbe molto da rivelarci in tal senso, per cercare di capire come hanno trasportato e lavorato coi mezzi primitivi a loro disposizione, blocchi di pietra pesanti anche centinaia di tonnellate. Materiali come la pietra calcarea, ma specialmente granito, granodiorite o gabbro, porfido di sienite e diorite: pietre di una durezza inferiore di soli 3 punti al diamante che è il massimo secondo la scala di Mohs (da 1 a 10). Come avrebbe potuto realizzare enormi statue, obelischi e giganteschi sarcofagi gente che aveva appena cominciato l’uso del rame e solo 2mila anni dopo avrebbe creato il bronzo, con lavorazioni talmente accurate che sarebbe difficile anche oggi con l’uso di moderne macchine?
Un altro mistero è come sono arrivati lì i blocchi di quarzite per realizzare le enormi statue del faraone Amenofi III (XVIII dinastia) dette “I Colossi di Memnone” e messe di guardia al suo tempio funerario di fronte a Luxor. Alte circa 14 metri e del peso di circa 700 tonnellate ognuna, furono ricavate da blocchi unici. Stessa storia per i blocchi di granito pesanti oltre 70 tonnellate usati per le piramidi della piana di Giza. Sicuramente potevano essere trasportati via Nilo su enormi zattere, ma come avrebbero potuto trasportare per centinaia di chilometri – se realizzato – “l’obelisco incompiuto” della grande cava di granito vicino ad Assuan? Lungo 41,75 metri e con una base di quasi 18 mq sarebbe pesato circa 1.200 tonnellate. Dato che il Nilo ha una profondità media di circa 33 piedi (10 m), non ci sarebbe stato anche un problema di pescaggio? Per non parlare dello sforzo enorme che sarebbe stato necessario per trainare questi blocchi con slitte sulle sabbie del deserto. Un paragone semplice viene dal ritrovamento nel 2018 ad Alessandria d’Egitto, di un sarcofago di granito nero di Assuan ancora integro: alto 185 cm, lungo 265, largo 165 , dalle stime fatte pesante circa 30 tonnellate di cui 15 solo per il coperchio. Un peso che è stato ritenuto eccessivo anche per i moderni mezzi, tanto che si è preferito lasciarlo lì.
Il Serapeo di Saqqara. «Non troverai mai la verità, se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspettavi di trovare» (Eràclito di Efeso). La scoperta archeologica per me più incredibile è quella fatta casualmente nel 1850 nella grande necropoli di Saqqara, dall’archeologo francese Auguste Mariette. Si tratta di una misteriosa struttura sotterranea scavata nella roccia, con una galleria principale alta 5 metri, larga 3 e lunga 223, che collega gallerie minori che portano ad un’area sepolcrale dov’erano sarcofagi in legno che contenevano tori mummificati. Ai lati del lungo corridoio trovò 24 camere sepolcrali con al centro, incastrato nel profondo incavo scavato sul pavimento, un enorme sarcofago monolitico di granito nero di Assuan del peso di circa 80 tonnellate, di oltre 3 metri di altezza, 4 di lunghezza e oltre 2 di profondità. Dai geroglifici appena abbozzati su tre di essi si ipotizzò che si trattasse di un tempio dedicato alla divinità egizio-greca Serapide e che quegli enormi sarcofagi fossero appunto destinati alla sepoltura dei corpi imbalsamati dei tori sacri del culto del dio Api; ma su tutti il coperchio di circa 35 tonnellate era al loro posto e dentro non si trovò nulla. Una cosa era però certa: erano stati lavorati con estrema cura, con tagli perfetti a 90° e levigatura a specchio che si potrebbe fare solo oggi con macchine speciali. Poi c’è da capire come li hanno fatti entrare in spazi così ridotti e a che o a chi erano destinati. Tra le ipotesi che hanno acceso l’immaginario collettivo, quella che fossero dei “portali spazio-temporali” per mettere in comunicazione universi paralleli (al cap. 17).
Le piramidi di Giza. Nella piana di Giza ci alcune piramidi ma tre sono le più grandi: Cheope, Chefren e Micerino. Oltre ad avere misure geometriche eccezionalmente precise, il loro allineamento e la grandezza sembrano riprodurre spazialmente le tre stelle della fascia di Orione (Alnitak, Alnilam e Mintaka), la costellazione sacra per gli antichi egizi, perché ritenuta la casa del dio della luce Osiride. Una casualità? Non sembra se pare ci siano almeno altri due luoghi al mondo che avrebbero questi stessi collocamenti spaziali: Teotihuacán, in Messico e Xian, in Cina. Inoltre, se furono costruite come tombe dei faraoni, perché le oltre cento piramidi della Valle del Nilo sono state ritrovate completamente vuote come se non ci fosse stato mai messo nessuno, come per i sarcofagi di Saqqara?
Il mistero della sfinge e il Diluvio universale. Ricordando l’erosione sulle pareti del Grand Canyon in Usa, mi sono chiesto il perché di quei segni lasciati sulla base in pietra calcarea della Grande Sfinge. A detta degli scienziati della Oregon State University, ci sarebbe un rapporto diretto tra le variazioni dell’asse terrestre e la parziale fine dell’ultima glaciazione terminata circa 19mila anni fa con lo scioglimento dei ghiacci e all’aumento dei mari. Probabilmente questo ha dato vita alla storia del “Diluvio Universale”, di cui si ha traccia nelle diverse antiche culture e religioni.
L’ipotesi fatta da molti ricercatori ma smentita dall’egittologia ufficiale, è che la causa dell’erosione della Sfinge sia dovuta proprio allo scorrere dell’acqua e che quindi il monumento non fu opera degli egiziani, in quanto realizzato millenni prima della datazione ufficiale (I dinastia). Se così fosse, chi avrebbe realizzato questo misterioso manufatto lungo 73 metri (con zampe e coda), alto 16 (testa esclusa), largo 19 e con una testa di soli 4 metri di altezza, troppo piccola rispetto al resto del corpo, come se fosse stata rimodellata con perdita di materiale roccioso. Una sproporzione che sembrerebbe incredibile in confronto alla precisione usata nel fare le tre piramidi accanto. Facendo riferimento a un suo precedente lavoro “Le macchine dell’immortalità – parte 1” (https://www.amazon.it/dp/B09CTNV9W8), Carlos Alberto Bisceglia fa notare che «La Sfinge che tutti conosciamo non è quello che appare. Il “Progetto Sphinx ARCE 1979-83” (guidato dall’egittologo americano Mark Lehner) a cui hanno collaborato i più grandi archeologi ed egittologi del mondo, ha messo chiaramente in luce che diverse parti del suo corpo sono state “aggiunte” alla statua originale, che era molto diversa da quella attuale. Per motivi ignoti i risultati di questi lavori sono finiti in un cassetto per quasi 40 anni. Da quanto rilevato, in origine la “Sfinge” non sarebbe stata che un semplice parallelepipedo con una testa di lato, realizzato in epoche precedenti a quelle dei faraoni. Infatti, dai dati resi pubblici il 14 maggio 2014 dal Dipartimento di Archeometria dell’Università di Aegean (Grecia) e relativi all’indagine condotta sulle rocce della piana di Giza usando il rivoluzionario metodo della “Luminescenza stimolata otticamente (OSL)”, è emerso chiaramente che alcuni monumenti attribuiti agli egizi non potevano essere stati edificati da loro perché risultati molto più antichi di quanto si ritenesse, dato che avrebbero potrebbe avere fino a 14.500 anni.
Le misteriose costruzioni delle civiltà andine precolombiane. Tra gli esempi di costruzioni emblematiche, quelle precolombiane come la fortezza di Sacsayhuamán a oltre 3.500 metri di altezza nella regione di Cusco, l’antica capitale dell’impero Inca. Realizzata tra il XV e XVI secolo con giganteschi massi squadrati di porfido e andesite pesanti decine di tonnellate, sono incastrati tra loro a tal punto da non permettere il passaggio di una lama di coltello. Ancora una volta la domanda è come siano arrivati lassù e come hanno potuto fare una lavorazione tanto accurata. Idem per Puma Pumku (VI-VII sec. d.C.) e Tiwanaku, due complessi monumentali precolombiani sulle Ande boliviane, a circa 4mila metri di altezza presso il lago Titicaca. Nel primo ci sono sparsi in terra resti di edifici realizzati con la logica del sistema ad incastro modulare. Sono in arenaria rossa e andesite finemente lavorata, del peso di svariare decine di tonnellate. A Tiwanaku, che dovrebbe essere precedente come nascita, ci sono ancora manufatti megalitici realizzati sempre con blocchi unici di arenaria rossa e andesite, come il monolito di Bennet, un “totem” dalle sembianze umane, alto circa 7 metri, con un peso di circa 20 tonnellate. Poi c’è la Puerta del Sol, un misterioso monolite alto 3 metri e largo 4, del peso di circa 10 tonnellate, di cui non si conosce il fine, ma tra le varie ipotesi, anche quella fantascientifica di uno “stargate” per collegare altri mondi. Come per Aramu Muru, una roccia di arenaria piatta di oltre 7 metri di lato, su cui è scolpita la Puerta de Hayu Marca (o Porta degli Dei). Alta quasi 2 metri con una forma a T, ha al centro un piccolo avvallamento a forma di cerchio, che secondo le leggende Aymara sarebbe stato una sorta di serratura per aprire un passaggio verso altri mondi. Siamo sempre presso il lago Titicaca e ad aumentare il mistero pare che né la guida turistica che la scoprì nel 1996 né altri l’avessero mai vista prima pur frequentando da sempre quei luoghi, diventati oggi un punto di riferimento per i turisti del paranormale.
In ogni caso, se ancora non c’è certezza su come gli egizi abbiano trasportato e lavorato in maniera impeccabile quei blocchi di roccia durissima, una possibile risposta sui monoliti precolombiani potrebbe venire dalla scienza moderna. Come riporta l’autore nel capitolo 8, le parziali conclusioni di un’ipotesi pubblicata nel 2018 su studi fatti a Puma Pumku e Tiwanaku, fanno capire che queste popolazioni fossero in grado di “lavorare la roccia” con un processo chimico. Dopo aver portato lassù sacchi di detriti rocciosi, venivano fatti sciogliere con acidi vegetali e si riaggregava la malta con l’aggiunta di natron (Na2Co3 -10H2O) preso sul lago Titicaca una volta. Poi si versava nelle casseforme per produrre rocce artificiali (geopolimeri) per geosintesi. Ma dove avrebbero appreso queste conoscenze scientifiche?
Per chi fosse interessato agli argomenti appena “scalfiti” nell’articolo: ‘Homo Reloaded – 75.000 anni di storia nascosta’, a cura di Carlos Alberto Bisceglia, 392 pagine acquistabile su https://www.amazon.it/dp/B0BLYBDF69 a 23,40 euro senza costi di spedizione.
Testo/Maurizio Ceccaioni – Foto/Anna Maria Arnesano e archivio Arnesano-Badini, Maurizio Ceccaioni foto d’apertura, Carlos Alberto Bisceglia