Castell’Apertole, frazione di Livorno Ferraris in provincia di Vercelli, si trova in una zona caratterizzata dalle “grange”. L’origine del nome non è certa, ma dovrebbe essere un termine diffuso dai monaci Cistercensi, giunto dalla Francia durante il XII secolo insieme al sistema di rotazione triennale delle colture: dal latino granea e quindi grangiarius, dal quale poi è derivato il francese grange (granaio) e lo spagnolo granja (fattoria). Erano infatti fattorie dipendenti dai monasteri e il nome stava a indicare sia la struttura edilizia che quella organizzativa dipendente dall’abbazia. Castell’Apertole comprendeva sette grange e faceva capo alle vicine abbazie di Lucedio e San Genuario, cui rimase fino al 1695, quando fu ceduta al Regio Demanio Piemontese.
Qui nel Settecento venne costruita anche una residenza di caccia di casa Savoia, il palazzo Chiablese, dove il re Carlo Felice veniva a trascorrere dolci momenti in compagnia delle sue amanti. Gli attuali proprietari hanno fatto opere di ristrutturazione del complesso, creando un maneggio, un agriturismo B&B e un parco acquatico per i bambini, un’oasi in mezzo alle risaie. Queste sono onnipresenti nel paesaggio circostante, che infatti viene definito “il mare a quadretti”, dall’immagine che viene offerta dalle acque chiuse e circondate da strisce di terra.
A Castell’Apertole, sulla strada provinciale che conduce a Livorno Ferraris, si trova un piccolo cimitero abbandonato. Quando fu costruito non è dato sapere: forse, ma è solo un’ipotesi, durante il breve dominio napoleonico, quando un’ordinanza imponeva di inumare i defunti al di fuori dall’abitato. Se la data della sua edificazione è sconosciuta, lo è parimenti il motivo della sua forma, perfettamente circolare, così insolita in un paesaggio dominato dai quadrati delle risaie.
Un’ipotesi è assolutamente esoterica: la pianta circolare avrebbe lo scopo di scacciare gli spiriti maligni dell’inferno, così da impedire loro di appropriarsi delle anime dei morti. Infine, rimane un mistero anche il motivo del suo abbandono e della sua sconsacrazione, avvenuti all’inizio del secolo scorso. Visitarlo è semplice, è sufficiente percorrere un breve lembo di terra in mezzo all’acqua e penetrare nel suo cancello aperto, dove un mazzo di fiori finti è stato appeso chissà quanti anni fa. La sensazione è strana, le scarpe che affondano nella terra molle sembrano attraversare uno spazio marino che consente di arrivare a un’isola, un’isola sull’acqua che abbraccia e protegge i suoi antenati. All’interno l’ambiente è spoglio, con ancora alcune lapidi al loro posto e una piccola cappella sul fondo, di fronte all’ingresso, dove sono deposte lapidi e monumenti funebri a pezzi. Respirando le emozioni che suscita il luogo, non dominano il timore o la paura, ma piuttosto sembra di percepire lo stupore di una visita inaspettata, come se qualche ospite si stesse meravigliando dell’ingresso di un vivo. A proposito, saranno stati davvero trasferiti gli abitanti di questo luogo? Anche a questa domanda non è possibile rispondere.
Testo e foto/Paolo Ponga