Quello dei rifiuti a Roma risulta un problema con radici lontane, come hanno scoperto gli archeologi che verso la fine del XIX secolo cominciarono a dare un senso a quell’altura a due passi dalla Piramide Cestia e Porta San Paolo, tra le Mura aureliane e la sponda sinistra del Tevere. Scoprirono così che quella collinetta artificiale databile tra il I e il III secolo d.C., costituita da strati ordinati di frammenti di anfore (amphorae), era la più antica discarica regolata al mondo. Parliamo di Monte Testaccio (Mons Testaceus) o Monte dei Cocci, come lo hanno sempre chiamano i romani. Un pezzo importante della storia della ‘Città eterna’, anche se lungamente passato in secondo piano. Un sito storico considerato dagli studiosi un archivio a cielo aperto, che ha cominciato a dare una chiave di lettura strutturata con i primi studi dell’archeologo tedesco Heinrich Dressel, nel 1872.
A Dressel, tedesco di nome ma romano di nascita, si deve la classificazione delle anfore ritrovate durante l’attività di scavo, divise per tipo e forma. Ma, come allievo del grande Theodor Mommsen (1817-1903), non poteva esimersi dallo studio del materiale epigrafico rinvenuto sui frammenti, selezionati tra le stratificazioni di cocci (testae) in terracotta ricoperti di calce. Autore di molti studi sulla storia di Roma, il Mommsen fu messo alla guida del comitato istituito nel 1847 dall’Accademia delle scienze di Berlino per raccogliere, in una collezione organizzata, tutte le iscrizioni latine conosciute nei secoli, poi chiamata ‘Corpus Inscriptionum Latinarum’ (Cil). Lo studio fatto da Heinrich Dressel sul Monte dei Cocci interessò principalmente i ‘bolli’ impressi su una delle anse (manici), o le annotazioni scritte a pennello o con il ‘calamo’ sul corpo dell’anfora, i cosiddetti ‘tituli picti’. Iscrizioni, poi riportate nel XV volume del ‘Cil’, che gli permisero di capire da dove provenivano e cosa portavano quei contenitori in terracotta, aprendo a un nuovo approccio nella conoscenza della storia economica dell’Antica Roma da Augusto in poi.
Non fu il caso a far sorgere lì questa discarica, a qualche centinaio di metri dal Tevere e a poca distanza dal mercato del bestiame, quel ‘Foro boario’ che stava davanti alla Bocca della Verità e di cui rimangono oggi a testimonianza i templi di Ercole e Portunno. Una zona allora cuore del commercio della Roma antica, dove si trova Ponte Sublicio, che collega l’attuale piazza dell’Emporio a Porta Portese, un tempo f la Porta Portuensis (V sec. d.C.). Si tratta dell’ omonimo del più antico ponte di Roma, ricordato nei libri di storia per le gesta di Orazio Coclite, il quale nel 508 a.C. fermò l’avanzata degli etruschi guidati da Porsenna, permettendo ai compagni di abbattere il ponte di legno alle sue spalle. Con l’intensificarsi dei commerci via fiume, nel II sec. d.C. fu realizzato il ‘Porto fluviale antico’ o dell’Emporium, dove arrivavano i prodotti dai porti di Ostia antica e di Traiano (Portus), oggi accanto all’aeroporto di Fiumicino. Marmi, avorio e tessuti provenienti dalle regioni dell’Impero; ma specialmente generi alimentari come cereali, vino e il prezioso olio d’oliva.
Bene fondamentale per la vita quotidiana, l’olio meno pregiato, prodotto nella provincia romana di ‘Betica’ (attuale Andalusia) o dal Nordafrica, era usato anche per unguenti, cosmesi e, soprattutto, illuminazione. Ma per i “ricchi palati” c’era invece l’Oleum ex albis ulivis, proveniente sia da Venafro (Molise) che dalla Liburnia, l’attuale costa istriano-dalmata. Le derrate alimentari erano usate anche come scorte annonarie, da distribuire periodicamente per tenere buono il popolo, secondo l’espressione attribuita al poeta romano Giovenale ‘Panem et circenses’ (pane e giochi circensi). Venivano scaricate nei magazzini (horrea) del ‘Porticus Aemilia’, i cui resti sono visibili tra la sponda sinistra del Tevere, accanto a Ponte Sublicio, e Via Rubattino, dove ci sono i resti delle arcate all’ingresso del parco pubblico, aperto a maggio 2015. L’edificio viene descritto dal sito della Soprintendenza archeologica di Roma come «Un vasto complesso di magazzini situato nella zona retrostante l’Emporium, una piazza destinata al mercato delle merci. Nell’aspetto simile ad un capannone lungo 487 m e largo 60, il portico era internamente diviso, tramite 294 pilastri, in sette navate longitudinali digradanti a due a due verso il fiume, e in cinquanta navate trasversali, coperte da serie di volte ortogonali alla facciata» (www.sovraintendenzaroma.it).
L’aumento dei traffici commerciali mise in luce il problema dello smaltimento delle anfore, non più utilizzabili per l’irrancidimento dovuto ai residui d’olio. Quindi, sebbene alcune parti fossero usate anche per la preparazione del cocciopesto romano per intonaci di pareti, cisterne e acquedotti, le anfore non potevano essere semplicemente buttate a fiume come era stato fatto per lungo tempo in passato, in quanto avrebbero finito per intasarlo. Così entra in gioco quella discarica pubblica destinata poi diventare il ‘Monte dei Cocci’ il quale diede anche il nome all’ex rione operaio romano di Testaccio, dato che in latino ‘testae’ significa appunto coccio. Si ritiene ci fossero dei funzionari statali (curatores) a seguire l’organizzazione e l’igienizzazione con calce dei materiali depositati. Dalle stime fatte dalla Soprintendenza capitolina, tenendo conto anche del materiale asportato durante la costruzione del rione Testaccio, nel Monte dei Cocci ci sarebbero i resti di circa 53 milioni di anfore, messe ordinatamente l’uno sopra l’atro come fossero dei muri a secco, fino a formare questa collinetta di 54 m slm (36 m dal piano strada), con una circonferenza di poco più di 1000 metri. Se per tre secoli fu una discarica ordinata, lo furono un po’ meno quelli che dal 1938 al 1942 scaricarono indiscriminatamente sul versante sudovest di questo sito archeologico, il materiale di risulta dello scavo del Circo Massimo, favorendo così lo sviluppo delle piante esistenti.
L’entrata parte dal cancello su via Nicola Zabaglia e si passa accanto ad una casa dove si vede una lapide datata 1744, la quale impediva in questo luogo lo scavo e il pascolo, pena il pagamento di 50 scudi d’oro. La stradina di cocci sul lato nordovest, probabilmente la stessa percorsa dai carri per il trasporto delle anfore da eliminare, s’inerpica tra la vegetazione spontanea fino alla cima, da dove si può osservare gran parte di Roma. Non proprio quella delle stampe di Jakob Wilhelm Mechau, o rappresentata negli acquerelli di Ettore Roesler Franz, perché quella Roma ha lasciato il posto all’espansione urbana e all’industrializzazione, con siti ormai d’archeologia industriale come il Gazometro, il Ponte dell’Industria (ponte di ferro), i vecchi Mercati generali di fronte ai quali c’è la centrale elettrica Montemartini, primo impianto di produzione elettrica a Roma dopo quello di Acquoria (Tivoli) e oggi sito museale capitolino. Un luogo interdetto per decenni alla popolazione, con un passato dalle tante sfaccettature, con storie che raccontano dei ‘Ludus Testaccie’, le feste del carnevale o l’apertura dei primi ‘grottini’, le osterie ricavate scavando i cocci alla base del monte, diventati oggi locali alla moda.
Racconti sulla batteria di cannoni posta in cima nel 1849 dalle milizie guidate da Garibaldi, a difesa della città dall’attacco delle truppe francesi durante la Repubblica Romana; o quelli dei più anziani su quell’antiaerea della Seconda Guerra Mondiale, la cui base si trova ancora accanto alla croce in ferro posta in cima il 24 maggio del 1914. Una croce voluta dagli abitanti del rione Testaccio e collocata lì dopo una processione guidata da don Luigi Olivares, allora parroco di Santa Maria Liberatrice, chiesa accanto alla casa al 18 dell’omonima piazza, dove il 18 settembre 1942 nacque Gabriella Ferri, grande interprete della canzone popolare romana e napoletana. La croce andò a sostituire quella in legno bruciata anni prima, in quanto questo luogo fu utilizzato anche come il “Monte Calvario” per la Via Crucis, che tanti anni fa arrivava dalle parti della Bocca della Verità. Fu la scena di battaglie gappiste durante la liberazione di Roma dai nazi-fascisti, d’incontri fugaci di innamorati al sole del tramonto e set cinematografico per film come ‘Accattone’ (1961) di Pier Paolo Pasolini. Ma prima di tutto sarà sempre una parte viva del Rione popolare di Testaccio.
Il sito risulta in carico alla ‘Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali’, ma è accessibile solo alle associazioni accreditate, per gruppi organizzati (massimo 30 persone). La data, l’ora della visita e la durata viene stabilita dal Comune, ma un’ora in genere non basta a far apprezzare questa parte della storia della città. Un sistema che non piace a molti operatori e cittadini, i quali hanno sottoscritto la petizione lanciata tempo fa su Change.org Italia da Irene Ranaldi, sociologa urbana e presidente dell’associazione culturale Ottavo Colle, che vive e lavora a Testaccio da oltre trent’anni. Ma se l’obiettivo era di sensibilizzare le istituzioni e in primis il Mibact e la Sovrintendenza per i beni architettonici e paesaggistici del Lazio, per trasformare il Monte dei Cocci in un parco urbano aperto a tutti i cittadini, finora non è cambiato nulla.
Info: Informazioni per l’accesso al sito: www. 060608.it
Testo/Foto Maurizio Ceccaioni