Il numero di piante estinte in epoca storica è talmente elevato che il singolo caso finisce, salvo particolari eccezioni, per non costituire notizia. Spesso si tratta unicamente di una perdita per la scienza, ma qualche volta la scomparsa di una specie vegetale può rappresentare anche un notevole danno pratico per il contributo alimentare e farmacologico che essa avrebbe potuto fornire, o continuare a fornire. Basti pensare come gran parte dei paesi del terzo mondo basino ancora oggi il loro sostegno alimentare su un numero esiguo di piante e come la loro farmacopea sia quasi esclusivamente di tipo vegetale.
Un esempio significativo sui danni prodotti dalla scomparsa di una specie vegetale può essere costituito dal Silfio cirenaico. Da quello che ne sappiamo attraverso le numerose testimonianze di parecchi autori classici, e in particolare da quelle di Teofrasto, padre della botanica antica, il Silfio (silphion il nome greco, silfium la pianta e laser la resina quelli romani, asa in arabo) era una pianta annuale spontanea, della famiglia delle Umbrellifere o Apiaceae e del genere Ferula, una specie di finocchio gigante alto circa150-200 centimetri, formato da una grossa radice tubercolare a livello del terreno e da un lungo tronco quadrangolare, rigato verticalmente all’esterno e cavo all’interno, interrotto da 3-4 segmenti circondati ciascuno da steli secondari e da foglie nonché da un mazzo di piccoli fiori distali alla sommità, a forma di palla o di ombrello. I frutti, dalla caratteristica forma a cuore, erano diacheni alati che maturavano a fine primavera e venivano dispersi dal vento. L’odore e il gusto dovevano essere simili a quelli dell’anisetta. Il tubero radicale veniva inciso a fine primavera per estrarre una gommoresina acre, rossa e traslucida, internamente trasparente e solubile in acqua simile alla mirra, denominata laserpitium o laserpicium, cioè latte di silfio. Suo unico luogo d’origine sembrano essere stati i prati stepposi incolti in un’area di circa 200 x 50 km sul versante mediterraneo del Jebel el-Akhdar, la Montagna Verde, che occupa tutta la Cirenaica dal golfo della Sirte fino al confine con l’Egitto. L’incontro tra le correnti umide marine con quelle calde sahariane genera un particolare microclima, ricco di piogge, evidentemente assai favorevole assieme al suolo calcareo ricco di carbonato di calcio. Ippocrate ci racconta degli inutili tentativi di coltivarla compiuti nel Peloponneso, in Siria e in altre regioni dell’Asia minore. Secondo gli scrittori antichi era una pianta di notevole versatilità per uso pratico: radice e stelo tagliati a pezzettini e conditi con aceto venivano usati come legumi di pregio, gli scarti costituivano foraggio per gli animali, mentre dai succhi del tronco si ricavava una spezia impiegata come condimento alimentare, per insaporire arrosti e trippa, o anche come correttivo nel vino, mentre dai fiori si ricavava un profumo. Secondo il gastronomo romano Apicio, autore di un ricettario in dieci volumi, il silfio costituiva la spezia per eccellenza, quella più ricercata, versatile e costosa, mentre il suo uso, oltre ad un segno di buon gusto, costituiva al tempo stesso un’ostentazione di ricchezza. La maggior risorsa era però costituita dal succo estratto dalla radice, chiamato lac serpicium e poi volgarizzato in laserpicium, che rappresentava un elemento assai importante nella farmacopea antica.
Come scrivono due autori indubitabili per competenza in materia quale Ippocrate, considerato il padre della medicina antica, e poi il farmacologo greco Discoride, a seconda della preparazione e del dosaggio il laserpicium veniva beneficamente usato per disturbi dell’apparato respiratorio (antiasmatico e contro la tosse), digerente (vermifugo, antispastico, purgante, astringente), circolatori, articolari, ginecologici (contro la sterilità e per facilitare il mestruo), per uso esterno contro i tumori cutanei, il trattamento delle ferite, le contratture muscolari, ma anche contro i tremori, l’epilessia e la depressione, come callifugo e contro la caduta dei capelli. Celsio lo annovera anche come digestivo, mentre gli egiziani lo usavano unitamente alla mirra per curare la psoriasi. Plinio il Vecchio ammette che le sue proprietà terapeutiche erano praticamente infinite. Ma il record di consumo, e quindi anche di prezzo, tra tutte le popolazioni del Mediterraneo e oltre si registrò quando gli vennero attribuiti anche poteri afrodisiaci (in realtà non dimostrati, per quanto ne dica Catullo, se non assai blandi) e, soprattutto, di funzionare come anticoncezionale. Parola di Ippocrate prima e poi di Sorano di Efeso, il fondatore della ginecologia e dell’ostetricia ed autore di un trattato sulle tecniche antifecondative dell’epoca. Il principio attivo doveva evidentemente contenere delle proprietà fitoestrogeniche tali da prevenire la gravidanza, impedendo la fecondazione dell’ovulo o il suo impianto nell’utero oppure, in caso di fecondazione già avvenuta, di produrre l’espulsione del feto mediante aborto. Era stato inventato il primo anticoncezionale orale della storia, vecchio di 2.500 anni, e pure la pillola del giorno dopo. Sorano suggeriva anzi che tutte le donne avrebbero dovuto bere succo di silfio almeno una volta al mese. Una moneta cirenaica molto eloquente al riguardo riporta una figura femminile che con una mano tocca una pianta di silfio e con l’altra indica i genitali. Per la precisione sappiamo che in Grecia fin dal VII sec. a.C. alcune piante della famiglia delle Apiaceae (comprendente finocchio, carote, cumino, prezzemolo, coriandolo, pastinaca, aneto e altre), oltre all’uso culinario, trovavano un impiego come medicine, e che carote selvatiche e finocchio possiedono capacità abortive. Possiamo anche aggiungere che, dall’inizio dell’epoca imperiale romana, per aumentare le sue capacità anticoncezionali, si cominciò a mischiare al latte di silfio la cantaridina, principio attivo della polvere ottenuta dallo sbriciolamento di in un insetto coleottero (Lytta vesicatoria) dal contemporaneo potere afrodisiaco e antifecondativo, dovuti alla sua azione congestionante a carico degli organi pelvici.
Considerata una tale versatilità di impiego, non sorprende la sua ampia diffusione in tutto il mondo antico, e il fatto che la lavorazione e il commercio del Silfio costituisse monopolio statale del regno di Cirene, con tanto di presenza della sua immagine stilizzata sulle monete libiche, nonché oggetto di un fiorente contrabbando. Ben più di grano, orzo, uva, frutta e olio d’oliva, nonché del pur importante commercio transahariano, esso costituiva la grande ricchezza di Cirene, colonia fondata nel 630 a.C. da emigrati dorici provenienti dall’isola di Santorini. In breve divenne la più importante città della pentapoli cirenaica e della costa settentrionale africana, epicentro di cultura – definita l’Atene d’Africa – resa celebre dalle presenza di illustri personaggi (il matematico Teodoro, il poeta Callimaco, il filosofo Aristippo, il geografo Eratostene e tanti altri) e non a caso sede di una rinomata scuola di medicina e farmacologia. Secondo la leggenda la pianta era stata un dono del dio Apollo, patrono della città venerato in un imponente santuario ai piedi dell’acropoli, alla ninfa Cirene. Un dono che per sette secoli portò enormi benefici ai suoi abitanti. Su una coppa greca del 560 a:C., oggi conservata alla Biblioteca nazionale di Parigi, compare l’immagine di re Arcesilao II di Cirene intento a pesare sacchi di silfio, un compito reale. Con molte probabilità la sua presenza portò diversi autori classici a localizzare il mitico Giardino delle Esperidi non oltre le Colonne d’Ercole, bensì in Cirenaica, in quella che per Omero era stata la terra dei Lotofagi, con la preziosa pianta autoctona non meno importante del decantato albero dalle mele d’oro (che forse erano soltanto arance, sconosciute nel mondo greco e romano). I Romani pagavano il succus cyrenaicus con controvalore in argento, e lo conservavano presso il Tesoro dell’Urbe assieme all’oro. Nel 49 a.C. ve ne era una tale quantità che Giulio Cesare ne sottrasse all’erario pubblico ben 1500 libbre (490 kg), assieme ad argento e oro, per fare fronte alle spese della guerra civile. Un personaggio di una commedia di Aristofane afferma che la maggior ricchezza della terra sarebbe costituita dal possesso di tutto il silfio libico, mentre “il silfio di Battus” (primo re di Cirene) divenne un’espressione comune greca per indicare una ricchezza estrema.
Ma come tutte le belle storie, anche quella del silfio stava per finire. Già all’inizio del primo secolo divenne sempre più raro e costoso, sostituito da alcune varietà mediorientali come Laser persicum e Ferula asafoetida, a quanto sembra però assai meno efficaci. Già ai tempi di Augusto quello originale era ormai talmente raro da essere pagato a peso d’oro. Qualcuno, errando, sostiene che l’ultima pianta venne donata all’imperatore Nerone perchè, come ci testimonia Plinio il Giovane, quando nel 93 d.C. Roma decise di acquistarne una certa quantità per calmierarne il prezzo, non riuscì che a trovarne 30 libbre (10 kg), reperite chissà come. E’ certo che nel 111 d.C. il farmacista comasco Aulo Geminio Giusto, amico di Plinio, effettuò una apposita spedizione in Cirenaica alla ricerca dell’ormai mitica pianta, senza riuscire a trovarne alcun esemplare. Nel 1800 la Società francese di Geografia istituì un premio per il ritrovamento di piante di silfio, che ovviamente non venne mai assegnato. Sulla causa dell’ estinzione gli autori classici non sono d’accordo ed avanzano diverse ipotesi: contrasti tra produttori e commercianti per i relativi guadagni, l’eccessiva richiesta del mercato con prezzi astronomici, la voracità delle capre libiche. Forse si tratta di una serie di concause, con ben altro tipo di voracità. Il rapido declino cominciò infatti all’inizio del I sec. a:C., quando Cirene e Creta divennero una provincia senatoriale romana; i governatori, si sa, non venivano retribuiti per la loro funzione, ma erano autorizzati a sfruttare le risorse locali come compenso e, come già denunciato da Cicerone nelle Verrine, spesso la loro voracità non aveva limiti. E’ probabile che, per rispondere alle crescenti richieste ed aumentare i guadagni, si sia cominciato ad abbattere piante premature, non consentendo più la loro riproduzione spontanea. E si arrivò in fretta all’estinzione totale, assoluta, irrimediabile ed irreversibile.
Se la scomparsa del Silfio e del laserpicium poterono in qualche modo essere ammortizzati dal mondo romano, dotato di maggiori risorse e di possibilità alternative, indubbiamente notevole dovette essere il danno per le popolazioni nordafricane, già allora a corto di altre risorse soprattutto per quanto riguarda la farmacologia. A distanza di quasi duemila anni il ricordo delle benefiche e svariate proprietà terapeutiche del Silfio cirenaico non si è ancora del tutto cancellato. Le popolazioni sahariane infatti fanno ancora oggi ampio uso di sostanze medicamentose ricavate dalle radici di alcune piante, in particolare Thapsia garganica e varie specie di Ferule (tutte sempre appartenenti alla famiglia delle Umbrellifere), ricche di acido tapsico, caprilico e ferulico, di tarpene e canfene, che sembrano avere non poche affinità col Silfio. E, ancora oggi come allora, esse servono a curare mille disturbi, dal mal di denti alla sterilità, dai dolori articolari al mal di pancia. Una risorsa dunque preziosissima per popolazioni che non hanno la disponibilità e l’abito mentale per l’uso dei moderni prodotti farmacologici.
Testo/foto di Giulio Badini – Ricerca iconografica a cura di Claudio Busi