1986, la Seconda guerra mondiale è lontana ormai 40 anni, ma gran parte dell’Europa si presenta ancora divisa nei due enormi schieramenti costituiti dalle due superpotenze vincitrici del conflitto: l’America da una parte, con il suo blocco occidentale e i paesi della NATO, e l’URSS dall’altra, con in testa la Russia e i paesi orientali riuniti sotto l’Unione Sovietica, un immenso blocco ideologico e politico che parte dall’Europa orientale fino all’Asia settentrionale. Visti gli enormi armamenti, anche nucleari, in dotazione alle due principali superpotenze, risulta una fortuna che questa “Guerra” non si sia mai concretizzata in un vero e proprio conflitto, limitandosi a rivalità ideologiche, politiche, sportive, scientifiche e tecnologiche. Un vantaggio, per certi aspetti, che portò alla terza rivoluzione industriale.
25 aprile, 1986. Pripyat è una pacifica, giovane cittadina costruita nel 1970 per ospitare i lavoratori della vicina centrale di Chernobyl, l’insieme di 4 reattori del complesso V.I.Lenin destinato a fornire, da solo, almeno il 10% del fabbisogno di energia elettrica in Ucraina. La vita a Pripyat, ormai da 16 anni, scorre tranquilla e sicura, e la stessa cittadina viene considerata una delle più progredite del paese, al punto da meritarsi soprannomi come “La città del futuro” e “La città dei fiori”, grazie alle infrastrutture avveniristiche e all’estrema cura nella sua costruzione, che ha permesso di salvare gli alberi delle immense e affascinanti foreste ucraine includendoli con abilità nelle architetture.
A Pripyat 47mila abitanti, a fronte di un progetto iniziale che ne prevedeva quasi il doppio, di tredici nazionalità diverse e arrivati qui dall’intera Unione sovietica vivono, dormono, sognano, nascono e muoiono in questi pochi chilometri quadrati che comprendono, oltre alle loro case, anche ospedali, due alberghi, un centro commerciale, un teatro, bar, cinema, biblioteche, ristoranti, mense, negozi, una piscina, impianti sportivi, vari asili e scuole (necessari: a Pripyat nascono circa mille bambini ogni anno). Non manca praticamente nulla, e la cittadina si presenta anche esteticamente affascinante, con i suoi murales, le insegne luminose e le ceramiche colorate alle pareti. La stessa posizione geografica risulta essere stata scelta con cura: Pripyat, vicinissima al fiume omonimo che passa anche per la Bielorussia, viene attraversata pure da una stazione ferroviaria e da un’autostrada. Questa estrema cura nella scelta della posizione, l’eccellenza delle infrastrutture, insieme alla giovane età media dei suoi abitanti (26 anni) la rendono una delle cittadine più vivibili e avveniristiche di un Blocco sovietico che, alla fine degli anni ’80, si credeva una macchina gigantesca, invincibile e perfetta. Una sicurezza capace di crollare nel giro di pochi anni, proprio a partire da questa notte.
Sono le ore 1.23 della notte del 26 aprile a Pripyat, alcuni abitanti, circa 270, si trovano nella centrale di Chernobyl per il turno di notte (comprensivo anche dei lavori per il reattore numero 5, definitivamente cancellati nel 1988). Gli altri rimasti nella cittadina dormono ormai da qualche ora, quando vengono svegliati bruscamente da una forte esplosione che sembra provenire da nord-ovest. Ancora assonnati, si dirigono verso le finestre, le terrazze e i balconi delle loro abitazioni e dall’alto di quelle posizioni (molti palazzi di Pripyat raggiungono gli 8, 10 e 16 piani di altezza) notano in lontananza uno spettacolo che, per quelle persone abituate ad una vita semplice, costituisce uno spettacolo dei più emozionanti, quasi pirotecnico. A breve distanza, circa 3 chilometri, si vedono alte fiammate viola e continui bagliori, misti ad un denso fumo che ben presto inizia a salire verso il cielo, in uno spettacolo capace di spiccare ancora di più in mezzo all’isolamento delle immense foreste situate attorno alla cittadina. Gli abitanti di Pripyat iniziano a svegliare chi ancora dorme, chiamano i figli perché assistano anche loro a quelle meravigliose fiamme viola, aprono persino le finestre e le porte delle case per vedere meglio.
Presi dall’entusiasmo, non si rendono subito conto che quelle luci spettacolari provengono proprio dalla centrale di Chernobyl, non sanno ancora che un tragico insieme di imprudenza, fatalità, carenze nella progettazione della centrale, scarsa preparazione del personale ed eccessivo senso di sicurezza hanno appena provocato uno dei peggiori disastri della storia dell’umanità. Non sanno che quelle insolite fiamme viola non sono fuochi d’artificio, ma una micidiale miscela di radionuclidi sparata a 1200 metri di quota, con radiazioni 400 volte superiori alla bomba atomica “Little Boy” sganciata dagli americani su Hiroshima 41 anni prima. Non sanno che quel boato spaventoso sentito poco prima era un’immensa esplosione causata dall’incendio (non da una reazione atomica, cosa ben diversa) scoppiato all’interno del reattore 4, di tipo RBMK-1000 come gli altri tre. Un’esplosione talmente forte da far saltare un “tappo” di cemento di 15 metri di diametro e del peso di 1000 tonnellate, finora chiamato affettuosamente Pyatachok (una moneta da 5 kopek di valuta locale). Tutto questo, gli abitanti di Pripyat, non lo sanno. Lo scopriranno solamente nelle settimane, nei mesi, negli anni successivi.
Per il momento nessuno sembra preoccuparsi seriamente, anche se qualcuno inizia a sentirsi la gola irritata e gli occhi in lacrime. L’Unione Sovietica, così dicono, così credono tutti, è una macchina troppo grande, troppo efficiente, troppo perfetta perché possa accadere un qualsiasi incidente, Pripyat stessa fa parte di questo utopistico sogno sovietico. La mattina dopo le coppie tornano a passeggiare nei parchi, i negozi riprendono le loro attività, proseguono i preparativi per l’imminente festa del primo maggio e si celebra anche qualche matrimonio. Quelle 47 mila anime tornano insomma alla loro quotidiana vita. Per poche ore: la notte del 27 aprile, e nelle ore seguenti, gli altoparlanti disseminati per le strade di Pripyat iniziano infatti ad emettere un costante avviso ad alto volume: “Attenzione (ripetuto varie volte), il Consiglio Comunale informa che, a seguito dell’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl, nella città di Pripyat le condizioni dell’atmosfera circostante si stanno rivelando nocive e altamente radioattive. Il Partito Comunista, i funzionari e le forze armate stanno quindi adottando le misure dovute. Ma, al fine di garantire la totale incolumità delle persone, e soprattutto dei bambini, è necessario evacuare temporaneamente i cittadini nei vicini centri abitati della regione di Kiev. Pertanto, oggi 27 aprile, a partire dalle ore 14, saranno inviati autobus sotto la supervisione di polizia e funzionari della città. Vi raccomandiamo di portare con voi i documenti, gli effetti personali necessari e gli alimenti di prima necessità. Gli alti dirigenti delle strutture pubbliche e industriali della città hanno stabilito l’elenco dei dipendenti necessari per rimanere a Pripyat e garantire il funzionamento delle aziende cittadine. Tutte le abitazioni, durante il periodo di evacuazione, saranno inoltre sorvegliate dalla polizia. Compagni, lasciando temporaneamente le vostre case, non dimenticate di chiudere le finestre, di spegnere le apparecchiature elettriche ed a gas e di chiudere l’acqua. Si prega di mantenere la calma, l’ordine e la disciplina durante lo svolgimento di questa temporanea evacuazione“. Temporanea…gli abitanti di Pripyat non sarebbero mai più tornati nelle loro casa e alle loro vite.
Già qualcuno, più sospettoso o forse meglio informato, aveva iniziato a trovare strana la presenza di alcuni militari giunti a Pripyat alle 8 del mattino, e alcuni avevano anche caricato in macchina i parenti e i beni più necessari e si erano allontanati dalla cittadina. Altri, invece, trovavano rassicurante la presenza dei soldati. Significava, forse, che il Regime sovietico aveva già sotto controllo la situazione? Alle ore 14 del 27 aprile 1986, puntuali, iniziano ad arrivare nella cittadina 1200 mezzi, tra autobus e treni, che nel giro di poche ore evacuano completamente gli abitanti, i quali stanno ormai assorbendo una dose di radiazioni centinaia di volte superiore ai limiti di sicurezza. Negli stessi momenti, in un raggio di 30 km intorno alla centrale, tutti gli insediamenti umani, paesi, case isolate e intere cittadine vengono evacuati. Ma anche questo, gli abitanti di Pripyat, non lo sanno. La facciata di perfezione del Regime sovietico appare talmente importante che, contro ogni sicurezza, il governo decide di non interrompere in nessun modo i festeggiamenti del primo maggio. Nelle settimane successive verranno trasferite 116 mila persone in una cinquantina di città e siti fuori dalla linea dei 30 km, che diventerà poi la “Zona di esclusione”, mentre l’incidente di Chernobyl sarà il primo, vero nemico dell’immagine perfetta che l’Unione Sovietica ha saputo costruirsi addosso in pochi decenni. Il Blocco sovietico crollerà infatti nel giro di pochi anni, i restanti reattori della centrale verranno chiusi uno dopo l’altro (l’ultimo, il numero 3, verrà disattivato il 15 dicembre del 2000), e ci vorranno almeno 30 anni prima che la vita nella Zona di esclusione torni ad un minimo di normalità.
32 anni dopo l’incidente di Chernobyl arriviamo a quel che rimane di Pripyat, accompagnati dalla nostra guida locale Igor. Negli ultimi tre decenni, quasi tutti gli insediamenti abitati nei dintorni sono stati saccheggiati da sciacalli, e i vari indumenti, giocattoli, elettrodomestici, pezzi di ricambio, libri e altro sono stati sparpagliati fino a Kiev, alcuni addirittura venduti in mercatini locali. Pripyat si è in gran parte salvata da questo saccheggio perché dichiarata quasi subito zona proibita e questo, unito alla buona conservazione della cittadina (che la dice lunga sulla bravura dei suoi architetti) la rende ancora oggi un’istantanea fedele di quell’avveniristica “Città del futuro” del 1970. Nei primi istanti la cittadina sembra un gigantesco e accurato set cinematografico, ma ci vuole poco a ricordarsi che ci troviamo invece in quel che rimane di un sogno sovietico il quale, a 32 anni di distanza, risulta ancora sospeso in un eterno istante, mantenuto da una patina di polvere e di ricordi. Igor, sempre prodigo di spiegazioni e muovendosi agilmente nella zona, ci guida all’interno di molti dei palazzi ancora ben conservati, dove troviamo tutta un’intera vita di 47 mila uomini, donne e bambini testimoniata da centinaia di giornali dell’epoca, libri, giocattoli, mobili, quadri, strumenti medici, sale operatorie, elettrodomestici, attrezzi sportivi. Ci colpisce la presenza di centinaia di filtri e maschere antigas abbandonate sui pavimenti e sui banchi.
Tutte le porte sono rimaste aperte, per disperdere il più possibile le radiazioni all’epoca, ma molti edifici rimangono ancora oggi inaccessibili, instabili (5 anni fa vi furono alcuni crolli), o troppo radioattivi per poter essere visitati in relativa sicurezza, soprattutto quelli con la facciata rivolta verso la centrale di Chernobyl. Altri edifici, ci spiegano, sono ancora di proprietà, quindi entrarvi sarebbe praticamente violazione di domicilio. Tra gli alberi di una natura capace di riprendere il sopravvento, a tratti notiamo alcuni pali con altoparlanti, ormai arrugginiti e silenziosi. Quegli stessi altoparlanti che, 32 anni fa, gracchiarono ad alto volume quel “Attenzione…il Consiglio Comunale informa” che avrebbe cambiato per sempre la vita di Pripyat e dell’intera Unione sovietica. Tra un edificio e l’altro, arriviamo al Luna Park cittadino. Avrebbe dovuto essere inaugurato il primo maggio del 1986, durante i festeggiamenti di quella festa dei lavoratori che il regime comunista volle a tutti i costi lasciar svolgere. Ma, essendo esposto in linea diretta verso la centrale, il parco si prese la maggior parte delle radiazioni provenienti dall’incendio, diventando la zona più contaminata della città.
Delle 4 attrazioni, le più importanti sono l’autoscontro e la ruota panoramica, ormai divenuta il simbolo stesso della cittadina. Del primo si notano ancora alcune macchine ferme nel centro della pista, come se i cittadini le avessero abbandonate il giorno prima, e non 32 anni fa. La seconda, la ruota panoramica, si presenta ancora oggi perfettamente conservata e con i suoi vividi colori: gli abitanti di Pripyat non fecero mai in tempo a inaugurarla. Poco distante da qui c’è la famosa Foresta rossa, la quale deve il suo romantico nome al colore degli alberi provocato dalla stessa massiccia ondata di radiazioni che investì il parco. Tutta la zona intorno risulta divisa in anelli concentrici. Il più interno di questi, 30 km intorno alla centrale, è il quarto cerchio, che include il nord dell’oblast (sistema di suddivisione delle zone negli stati slavi e dell’ex URSS) di Kiev, quello di Žytomyr e arriva fino al confine con la Bielorussia. Un territorio meglio conosciuto come la Zona di esclusione, dove qualsiasi attività umana a lungo termine viene ormai proibita, e anche le attività più brevi vengono controllate dalla Polizia speciale e regolamentate dal locale Ministero degli interni ucraino.
Rientrando negli edifici, arriviamo anche nella Lazurny, la piscina coperta di Pripyat, altra testimonianza della cura con cui all’epoca vennero costruite le infrastrutture della cittadina. Di grandi dimensioni, e dotata di spogliatoi e riscaldamento, la piscina è rimasta attiva fino al 2000 per i lavoratori della centrale di Chernobyl. Affacciandosi da quel che rimane delle finestre, si nota ancora meglio come la natura circostante si sia ormai ripresa quasi tutta la zona, accentuandone l’atmosfera di malinconico abbandono. Non è impossibile, anche se abbastanza raro, incontrare nelle zone intorno qualche lupo o anche degli orsi. La mancanza quasi totale di presenza umana negli ultimi tre decenni li ha resi praticamente padroni del territorio.
Nelle nostre esplorazioni, sempre sotto la guida del nostro instancabile Igor, notiamo la quasi totale assenza di automobili o mezzi di qualsiasi tipo. Verremo poi a sapere che, intorno a noi, sono seppelliti veicoli ed elicotteri a centinaia, sia civili che militari. Il metallo con cui erano stati costruiti fece praticamente da spugna, assorbendo dosi altissime di radiazioni. Da qui ne venne ordinato subito l’interramento. Lasciamo infine Pripyat con i nostri corpi, ma non con i nostri cuori, come se in quelle strade vuote, in quei palazzi enormi e vuoti, in quelle finestre e in tutti gli innumerevoli oggetti di vita quotidiana potessimo ancora sentire le voci di 47 mila anime che qui sognavano e vivevano. Tutto qui ancora testimonia la malinconica e tragica ironia di una città, e con essa di un intero blocco comunista, allora avveniristica e teoricamente pronta ad affrontare qualsiasi cosa. Una certezza fragile, illusoria, crollata definitivamente nella notte del 26 aprile 1986.
Testo/foto Emiliano Federico Caruso