Nel novembre del 2000 un gruppo di speleologi ravennati scopriva una nuova cavità naturale sulle pendici meridionali del Monte Mauro, nel Parco regionale della Vena del Gesso Romagnola. L’occhio attento degli scopritori non tardava ad individuare all’interno della Grotta della Lucerna, così verrà chiamata il novello paleo inghiottitoio carsico, significativi lavori di adattamento sotto forma di gradini artificiali, tacche ed incavi ricavati per superare tratti verticali, pareti intensamente scalpellate per allargare passaggi stretti o per asportarvi qualcosa, fori per farvi passare corde e carrucole, condotti ostruiti da materiali di risulta, nicchie scavate nelle pareti per contenervi delle lucerne, che hanno poi disidratato il gesso sovrastate con la loro fiamma. Ma chi aveva preceduto gli speleologi nelle viscere della Vena, chi aveva avuto interesse a frequentare per lungo tempo un ambiente tanto ostile e inospitale, all’apparenza privo di ogni genere di risorse pratiche e, soprattutto, quando e perché ? Per qualche tempo le domande degli studiosi rimasero senza risposte, anche quando il rinvenimento di frammenti ceramici, di alcune lucerne e di una moneta risalente all’imperatore romano Antonino Pio (138-161 d.C.) non ne collocò l’arco temporale tra l’inizio e la piena età imperiale, cioè dal I al V sec. d.C., anche perché nella letteratura scientifica non esisteva nulla, o quasi, sull’argomento. Per chiarire quanto gli specialisti brancolassero inizialmente nel buio, va detto che ipotizzarono anche trattarsi di un mitreo (luogo di culto del dio orientale Mitra), pur in assenza di qualsiasi presupposto in tal senso. Poi a qualcuno venne in mente un passo della Naturalis Historia (XXXVI), la monumentale opera di Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) dove il grande naturalista romano descrive dettagliatamente, e con cognizione di causa per essere stato procuratore in Spagna nel 73 per conto dell’amico imperatore Vespasiano, delle consistenti cave di lapis specularis presenti in quella nazione, che lo scrittore poeticamente definisce “minerale diafano come il ghiaccio, trasparente come l’aria pura”.
Il lapis specularis, o pietra speculare, poco noto agli archeologi e ancor meno al grosso pubblico, è una varietà macrocristallina di gesso secondario (o selenite) caratterizzata da conformazione a strati e aspetto traslucido e liscio, che può essere sfogliato in lastre trasparenti di ampia superficie (superiori anche ad 1,5 m, ma facilmente modellabili alle dimensioni volute con normali seghe) e spessori piuttosto sottili (da 0,15 ad 1,6 cm), che per secoli nel mondo romano hanno preceduto, e poi affiancato, l’uso delle lastre di vetro, più difficili da procurarsi e in ogni caso assai più costose, per proteggere gli edifici pubblici, le terme e le ville imperiali e dell’aristocrazia dal vento, dal freddo e dal caldo, assicurandosi però la luce. Nell’architettura latina vetro e/o lapis non venivano impiegati soltanto nelle finestre, montati su telai di legno o metallo e fermati con stucco, malta, bitume o con rivetti metallici, per illuminare triclinia e cubicula, ma anche per lucernai, serre ed alveari e, soprattutto, per chiudere in inverno i peristilia, posizionando delle vetrate mobili tra le colonne dei portici. Plinio, per il quale i cristalli di specularis si formavano per condensazione dell’acqua sotterranea, ci racconta delle immense cave di gesso dell’Hispania Citerior, ubicate in particolare nelle regioni centrali della Castiglia – La Mancha (attuali province di Cuenca e Toledo, attorno alla cittadina di Segòbriga) e in quella di sud-est dell’Andalusia, come una delle principali risorse minerarie del paese, con centinaia di esercizi estrattivi capaci di rifornire di lastre trasparenti gran parte dell’impero. Altri giacimenti si trovavano in Tunisia, Cipro, Siria e Anatolia, in località non meglio precisate, oltre che a Bologna e in Sicilia. Esse appartenevano al patrimonio pubblico, gestite dai governatori provinciali, poi all’inizio del II sec. a.C. la gestione fu affidata a società di pubblicani; Augusto creò la figura specifica del procurator metallorum, che rispondeva del suo operato direttamente al Senato ed al fisco imperiale, il quale poteva affittarle o cederle in gestione per un massimo di cinque anni. Le maestranze erano formate da liberti, da schiavi e da una apposita categoria, i condannati ad metalla, costretti cioè ai lavori forzati nelle miniere per espiare le loro colpe. In generale si trattava di gallerie orizzontali, dove potevano entrare anche animali da soma, collegate all’esterno mediante pozzi verticali di aerazione e illuminazione. Per le ridotte dimensioni di parecchi ambienti veniva utilizzata anche manodopera minorile: il museo di Jaèn in Andalusia espone la stele funeraria di Quinto Artulo, un bimbo morto all’età di 4 anni e ritratto con i suoi strumenti usuali di lavoro da minatore, la piccozza e la lucerna. Conosciamo anche il loro abbigliamento, semplice ma versatile: gli specularii, come venivano chiamati gli operai incaricati dell’estrazione e della lavorazione, vestivano una tunica corta, calzari e ginocchiere in sparto, una graminacea piuttosto resistente usata per fare cordame. Come strumenti usavano gerle a spalla per il trasporto e una serie variegata di strumenti di ferro per l’estrazione: piccozze, asce, scalpelli, punteruoli e cunei, martelline e mazzette e, ovviamente, lucerne ad olio per illuminare il buio. Il materiale veniva in genere sbozzato in loco, e poi lavorato sui luoghi d’uso dagli specialisti. Nei palazzi imperiali questi arrivarono a costituire spesso una potente corporazione di liberti, quasi intoccabili: nel 337 Costantino li esentò per legge dal dover prestare altri tipi di servizi, affinchè potessero dedicarsi con impegno alla propria importante funzione. Parecchi resti di lapis, montati o meno nei relativi telai, sono stati individuati in alcune ville nobiliari e nelle terme di Pompei, Ercolano, Roma e Cagliari, poi in diverse altre località del Mediterraneo, ma al riguardo la letteratura non aiuta, perché parecchi archeologi per inesperienza hanno ancora oggi difficoltà a riconoscere questo materiale lapideo, confondendolo a volte con talco e mica. Il suo uso, in accoppiata o in alternativa al vetro, dovette essere assai superiore ai ritrovamenti riportati dalla bibliografia, anche per un fatto di economia: costava infatti parecchio di meno rispetto al vetro. Nel 301, ai tempi dell’imperatore Diocleziano, una libbra di vetro alessandrino, il migliore sul mercato, costava infatti 24 denari, una di vetro giudaico, più economico, costava 13 denari, mentre una libbra di specularis della miglior qualità – quella bianca candida e perfettamente trasparente perché priva di ogni tipo di impurità – non andava oltre ai 6 – 8 denari. Nel 40 d.C. Filone d’Alessandria (20 a.C.- 45 d.C.), filosofo ellenistico di cultura ebraica e tra i primi commentatori dei testi biblici, si recò in ambasceria a Roma presso l’imperatore Caligola, rimanendo molto colpito dal fatto che il palazzo imperiale possedeva finestre con pietre trasparenti che lasciavano trasparire la luce, ma non gli agenti atmosferici. Il severo filosofo Seneca (4 a.C. – 65 d.C.), spagnolo di nascita, condannava invece questo progresso corruttore dei costumi antichi.
Nel frattempo le ricerche degli speleologi ravennati hanno portato ad individuare, in ambiente esterno ed ipogeo, un’altra ventina di cave di lapis nella Vena del Gesso romagnola nell’area di Monte Mauro, affiancati per la prima volta da archeologi della Soprintendenza e da specialisti in varie discipline contigue, mentre speleologi siciliani hanno individuato cave in alcune cavità naturali presso Cattolica Eraclea (Agrigento), per altro già citata da Plinio il Vecchio. Lo stesso per l’Italia cita anche Bologna, ma non la Vena romagnola, vicine ma che non sono la stessa cosa: probabilmente fu tratto in inganno dalla relativa vicinanza tra le due località, e dalla maggior importanza storica e demografica della prima rispetto alla seconda. Bononia infatti era la città romana che più di tutte ha usato il gesso come pietra per edificare, tra il 189 a.C e il 31 d.C., tutti i suoi maggiori monumenti, a cominciare dalle mura, continuando pure in epoca medievale e anche oltre. Era comunque la prima volta che nel nostro paese si affrontava questo argomento, cosa che archeologi e speleologi spagnoli hanno cominciato a fare decenni or sono, e si sentiva la necessità di un incontro tra specialisti a livello internazionale per cercare di dare una risposta a troppi interrogati rimasti in sospeso. A raccogliere il testimone è stata la dottoressa Chiara Guarnieri, della Soprintendenza Archeologica dell’Emilia-Romagna, che ha convocato per il 27 e 28 settembre 2013 presso il Museo civico di Storia Naturale di Faenza (Ravenna) un apposito convegno dall’eloquente titolo “Il vetro di pietra – Il lapis specularis nel mondo romano dall’estrazione all’uso”. Ora il volume degli atti, curati dalla stessa promotrice e contenente le relazioni dei diversi specialisti, comincia a delineare qualche risposta ad una domanda elementare: come proteggevano i Romani le loro case dal freddo, dal caldo e dal vento, prima della diffusione del vetro in lastre, assicurandosi nel contempo la luce ?
VETRI ANTICHI
Il vetro viene prodotto per la prima volta in Medio Oriente all’inizio del II millennio a.C., forse per caso riscaldando una miscela di quarzo (ricavato dalla sabbia) e carbonato di sodio. Attorno al 1500 a.C. l’Egitto sforna ottimi prodotti, ma sono i Fenici, grazie ad un’ottima sabbia silicea, a poter vantare la qualità migliore. Nel I sec. a.C. in Palestina si scopre la tecnica della soffiatura, antesignana per la produzione del vetro in lastre, che si diffondono in fretta in tutto l’impero, pur se riservate ad una cerchia ristretta di èlite per l’elevato costo. Il vetro più antico compare a Pompei nel 60 a.C., in un edificio termale del Foro. Per ragioni climatiche fabbriche romane di vetro compaio a Trier ed a Colonia in Germania, dopo il 50 d.C., poi in Britannia. All’epoca di Tiberio (14-32 d.C.) venne inventato anche il vetro infrangibile, ma pare che l’imperatore condannò a morte l’incauto scopritore per non lasciare i vetrai senza lavoro.
PIETRE ROMANE
Da popolo estremamente pratico quale ha dimostrato di essere, i Romani hanno sempre cercato di utilizzare per le proprie costruzioni pubbliche e private i materiali lapidei presenti in loco, limitando gli spostamenti su lunghe distanze soltanto a materiali pregiati destinati a Roma o alle residenze imperiali e della nobiltà. Troviamo così tufi e travertini nell’Italia centrale, il marmo rosso ammonitico dei Lessini sul Garda, a Verona e in Veneto, il calcare di Aurisina e quello d’Istria sulle due sponde dell’alto Adriatico. Bononia, la città più importante della Pianura Padana, fu interamente edificata utilizzando il gesso degli affioramenti sui colli suburbani. Il gesso era una pietra molto apprezzata ed utilizzata dai Romani: cotto e triturato, con l’aggiunta di acqua serviva per intonaci o per fare stucchi, decorazioni e statue, mentre spezzettato veniva steso sui pavimenti di edifici pubblici e domestici per rallegrare gli ambienti con il suo luccichio. Solo alla fine dell’età repubblicana cominciarono ad affluire a Roma, ed in altre località prescelte dall’aristocrazia come loro residenze, marmi pregiati per adornare monumenti, edifici pubblici e ricche domus private, come i marmi pantalici greci o dell’Asia minore, i graniti egizi e, soprattutto, il candido marmo statuario apuano, imbarcato dal porto di Luni.
Testo : Giulio Badini / Foto : Ivano Fabbri