Dopo mezzo secolo di onorata professione giornalistica in giro per il mondo, dove ne abbiamo viste di tutti i colori, sono davvero poche le notizie in grado di farci sobbalzare sulla postazione di lavoro. Eppure è accaduto nei giorni scorsi, alla lettura di un dispaccio di agenzia proveniente dalla Siria. In estrema sintesi, si trattava della dichiarazione del governatore della provincia di Homs, Talal Barazi, il quale affermava l’intenzione del governo siriano di impegnarsi per la ristrutturazione dei resti di Palmira, la grande antica metropoli del deserto distrutta con la dinamite dai fanatici dell’Isis negli scorsi anni e uno dei più importanti e suggestivi siti archeologici del Medio Oriente (e del mondo intero), con l’intento di riaprirla al turismo entro la metà dell’anno prossimo. Il tutto grazie all’impegno tecnico ed economico da parte dell’Unesco e di una serie di nazioni – tra cui Russia, Polonia ed Italia – che già hanno speso 150 mila dollari per il solo restauro del portico nel Tempio di Bel.
Considerando le notizie quotidiane provenienti dalla Siria, in un primo momento abbiamo pensato ad una bufala, ad una bella fake news, ma abbiamo subito trovato conferma in autorevoli fonti ufficiali. Se dunque, anzichè un auspicio personale, si tratta davvero di un proposito del governo siriano, ogni persona amante della pace e della cultura non può che rallegrarsene. Perché, oltre a poter rimettere piede in un luogo affascinante carico di storia, vorrebbe dire la fine di una guerra civile ferocissima ed assolutamente inutile come tutte le guerre, costata sofferenze inenarrabili alla popolazione, con una nazione completamente distrutta, mezzo milione di morti, un numero imprecisabile di feriti ed oltre 5 milioni di profughi (più della seconda guerra mondiale). Per il solo ripristino di Palmira si calcola una spesa di 2 miliardi di dollari. Con questo auspicio pubblichiamo un articolo sulla regina del deserto siriano, scritto dopo una visita compiuta appena prima dell’inizio del conflitto e rimasto inedito.
Nel cuore del deserto siriano, a metà strada tra i rilievi dell’Antilibano e le rive dell’Eufrate, all’interno di un’ampia oasi sorgono le rovine imponenti di una delle più importanti città storiche del Vicino Oriente, Palmira, un nome che riecheggia eventi lontani ma di notevole rilevanza. Questa città rappresentò in assoluto una delle maggiori metropoli dell’antichità ubicate nel deserto, e grazie alla propria posizione privilegiata a metà strada tra Mesopotamia, golfo persico e il Mediterraneo, costituì per un paio di millenni un cardine fondamentale nei commerci tra Oriente e Occidente, permettendo di far affluire in tutto il bacino del Mediterraneo merci e prodotti provenienti dalla penisola arabica, dal Medio Oriente, dall’Asia centrale, dall’India e dall’Estremo Oriente fino alla Cina, e ovviamente anche viceversa, mettendo in contatto attraverso i consumi popoli e mondi tra loro sconosciuti e per altro incomunicabili. Perché alle merci che approdavano via mare ai porti del golfo persico si mischiavano anche quelle provenienti via terra dall’antichissima Via della Seta e, più tardi, pure quelle che transitavano lungo la Via dell’Incenso. In estrema sintesi una capitale del commercio mondiale globalizzato ante litteram.
Palmira, o meglio Tadmur, la città dei datteri come veniva e viene tuttora chiamata dai suoi abitanti (Palmira, la città delle palme, fu il nome datole da Greci e Romani), ha una storia molto antica. Si trova infatti citata in documenti risalenti all’inizio del II millennio a.C., quando era già un importante nodo carovaniero. Certe fortune non nascono mai per caso. Quella di Palmira, oltre a trovarsi lungo la strada più breve tra l’Oceano Indiano e il Mediterraneo, fu costituita dalla presenza di una sorgente – tuttora attiva – che regalava abbondanza d’acqua in pieno deserto. E, come si sa, l’acqua è in grado di far fiorire anche il deserto. Qui regalò senza risparmio ogni ben di Dio: palme ombrose, succulenti datteri, alberi da frutta, ortaggi e cereali, cotone e fieno. Il meglio che potessero chiedere le carovane di uomini e dromedari in cammino attraverso una zona arida. Ma i palmireni non si limitarono a gestire un florido caravanserraglio, una confortevole area di servizio nel mezzo del deserto siriano che percepiva elevati dazi e pedaggi perfino dalle prostitute: crearono milizie per garantire la sicurezza delle vie carovaniere, allestirono magazzini e divennero essi stessi commercianti, guide e organizzatori di carovane commerciali. Eressero fondaci nei porti sul golfo arabico, gestirono flotte mercantili in proprio, disseminarono fondaci commerciali in tutto il Mediterraneo fino alla Gallia e alla Spagna. Diventando in breve tra gli uomini più ricchi del tempo.
Inevitabilmente tanta ricchezza finì con l’attirare l’attenzione della maggiore potenza dell’epoca, Roma, destinataria di gran parte delle merci esotiche che transitavano dalla metropoli del deserto. Palmira era un colosso economico, ma dai piedi (militari) d’argilla: non governava su uno stato, né era interessata ad averlo, e il suo esercito si limitava agli arcieri a cammello che scortavano le carovane; quando si trovò stretta tra due vicini ingombranti, i Romani ad occidente ed i Parti persiani ad oriente (tra loro nemici giurati), dovette destreggiarsi diplomaticamente, alternando alleanze, sudditanze e scontri con entrambi. Durante la guerra civile Pompeo conquistò la Siria e nel 41 a.C. Marco Antonio manda la cavalleria per saccheggiarla, ma trova la città deserta perché gli abitanti erano fuggiti con tutti i loro averi oltre l’Eufrate. Sotto Tiberio (14-37 d.C.) venne annessa all’impero e cominciò a pagare tributi a Roma. Le casse dell’erario si riempirono in fretta, perché da Palmira transitava davvero ogni ben di Dio: pietre dure, avorio, cotoni, aromi e spezie dall’India, sete, pellicce e porcellane dalla Cina, mirra, incenso e gemme dall’Arabia, lana tinta di porpora e vetri policromi dalla Fenicia, vino dal Libano e tant’altro. E assieme alle merci viaggiavano anche idee, acquisizioni, conoscenze. Parecchi prodotti palmireni modificarono profondamente la vita e le abitudini dei Romani. Prendiamo la cucina. Tralasciando di parlare delle spezie, da qui arrivarono per la prima volta sulle tavole capitoline arance, albicocche e pesche dalla Cina, prugne e susine dal Caucaso, pere, mele e piselli dall’Asia centrale, cetrioli dall’India, ceci e spinaci dall’Iran, e poi limoni, fragole, ciliegie, cavoli, lenticchie, zucchine e nuove specie di frumento più idonee alla lievitazione. Arrivarono anche sconosciute selezioni di viti capaci di migliorare il non ottimo vino italico, pesce secco, in salamoia o in pasta (il famoso gurum), caviale e il latte vaccino bollito, una tecnica cinese ripresa dagli Arabi, e lo zucchero di canna indiano affiancò per la prima volta il miele come dolcificante. Prodotti capaci di rivoluzionare il gusto e l’alimentazione, ma anche di costringere più volte il Senato a discutere il dissanguamento finanziario provocato dall’importazione di prodotti costosi da paesi lontanissimi. Basti solo pensare che tra Cartagine e Ostia facevano la spola cento navi al giorno.
Nel 130 l’imperatore Adriano la visita: costruisce nuove strade, imponenti monumenti e opere pubbliche, le cambia il nome in Hadriana Palmira e, soprattutto, la dispensa dal pagamento dei tributi. La città tocca il suo apice, economico ed edilizio, anche grazie alla caduta di Petra che vi fa convogliare il traffico ex nabateo della Via dell’Incenso. Caracalla, figlio di madre siriana, nel 212 fa ancora di più: la eleva a colonia, facendo dei palmireni cittadini romani a tutti gli effetti, e quindi esentati anche dalle tasse imperiali. A questo punto Roma entra in una spirale di debolezza e anarchia, per lotte intestine e pressioni barbariche ai confini: Palmira, ingrata e ambiziosa, pensa di approfittarne per conquistare la propria indipendenza. Il principe arabo Odenato, il cui padre rappresentava la città in Senato a Roma, tra 256 e 260 batte in conflitto i Persiani e arriva a liberare lo stesso imperatore Valeriano che era stato fatto prigioniero. Valeriano lo ricompensa proclamandolo re e mettendo sotto il suo comando tutte le truppe romane presenti in Siria. Ma nel 266 Odenato e il figlio maggiore, suo successore designato, muoiono avvelenati, e i sospetti si addensano sulla seconda giovane moglie Zenobia Septimia.
Zenobia, che si proclamava discendente di Cleopatra, rappresenta la figlia più celebre di questa città, anche se ne determinò la rovina. Le poche notizie che la riguardano la descrivono come una donna bellissima, raffinata, assai colta (parlava quattro lingue e si contornava di filosofi ed eruditi) e di grande abilità politica e militare, ma anche di smisurata ambizione. Non accettava che la città e il marito fossero vassalli romani, perché aveva per sé e per la sua terra progetti grandiosi, e forse per questo non fu estranea alla morte di Odenato. Manifestò il suo disprezzo verso i Romani con una iniziativa assai curiosa e unica: fece stampare un moneta, con su un lato l’effige del figlio e sull’altro quella dell’imperatore, ma il valore non era uguale: il lato palmireno valeva il doppio rispetto a quello romano. Nessuno aveva mai osato tanto.
Quando Roma non le riconobbe i titoli del marito, armò un esercito e assediò Bosra, capoluogo romano della provincia d’Arabia, e conquistò in successione tutta la Siria, la Palestina, l’Anatolia fino al Bosforo e il basso Egitto, tentando di affamare Roma con l’embargo del frumento egiziano e arrivando a proclamarsi imperatrice. Naturalmente all’imperatore Aureliano non restò che affrontare nel 271 l’esercito zenobiano, battuto due volte in campo aperto, fino ad assediare Palmira. Zenobia tentò una sortita per andare a chiedere aiuto ai Persiani, ma fu catturata sull’Eufrate e tradotta in catene d’oro a Roma per lo sfarzoso trionfo del vincitore. L’imperatore si rivelò magnanimo: risparmiò Palmira, dove lasciò una guarnigione, e salvò la vita all’usurpatrice, della quale si era forse innamorato, relegandola in una sontuosa villa a Tivoli. I palmireni commisero a questo punto un errore fatale, trucidando i soldati romani; questa volta Aureliano fu implacabile: nel 273 massacrò tutti gli abitanti, incendiò e rase al suolo l’intera città. Dopo oltre duemila anni di vita la splendida metropoli del deserto, il nodo carovaniero più importante dell’impero romano, uscirà definitivamente dalla storia. Più tardi Diocleziano eresse sulle sue rovine un campo militare fortificato, ma si trattava ormai soltanto di un avamposto di frontiera a tutela dei confini orientali dell’impero. La conquista nel VII secolo da parte degli Arabi chiuse definitivamente il discorso, con lo spostamento dei traffici commerciali su Aleppo e Damasco. Sui resti della splendida Palmira scesero la sabbia e l’oblio, per riaffiorare soltanto nella seconda metà del 1700 come uno dei maggiori tesori archeologici della Siria e di tutto il Vicino Oriente.
Per la loro imponenza e monumentalità, per la vasta estensione e per il buono stato di conservazione (anche se la maggior parte rimane ancora da scavare e restaurare), i resti di Palmira-Tadmur appaiono oggi al visitatore che arriva dal deserto quasi come un miraggio, sorvegliati sulla collina settentrionale dalla severa mole del castello medievale di Qalah ibn Maan. Per percorrerla compiutamente occorre dedicarle almeno un’intera giornata, comprendendovi sia l’alba che il tramonto, capaci di regalare con le loro luci sfumate immagini e sensazioni assai suggestive. Da vedere c’è veramente tanto: le mura, l’agorà, il teatro, il ninfeo, il senato, la porta pretoria, le terme, l’accampamento di Diocleziano, le basiliche bizantine, diversi templi, l’arco monumentale e il tetrapilo. Due però si impongono su tutti, come veri capolavori originali: il santuario di Baal, con 220 metri di lato il maggiore e meglio conservato tempio di tutto il Medio Oriente, e la Via Colonnata, una strada porticata lunga oltre un chilometro e larga 17 metri che attraversava tutta la città, di cui ne era il cuore pulsante, con una prospettiva quasi infinita, che con le sue botteghe laterali costituiva il maggiore suq dell’antichità. I reperti del museo testimoniano un’arte dove si fondevano elementi classici tardoellenistici e romani con influenze persiane, originando uno stile sincretico originale; suggestive anche le steli in aramaico, la lingua di Palmira e della Siria antica, ma anche quella di Gesù. Da non perdere infine le necropoli e la sorgente termale.
Le tombe sono costruzioni a torre oppure sotterranee, capaci di ospitare anche 400 salme ciascuna: architetture, sculture e dipinti confermano la ricchezza dei mercanti locali, ma anche che i palmireni furono i primi impresari di pompe funebri in forma massiccia, garantendo un loculo anche ai meno abbienti. Le acque, che furono alla base della fortuna dell’oasi, sgorgano da una galleria ipogea lunga 600 metri: sono leggermente solforose, ricche di vari minerali e benefiche per diverse affezioni reumatiche e respiratorie. Ovunque aleggia lo spirito fiero e indomito di Zenobia, un’eroina consegnata dalla storia al mito, ultima espressione delle grandi figure femminili d’Oriente, da Didone a Semiramide e Cleopatra, che tentarono di ritagliarsi uno spazio in un mondo assolutamente maschilista.
Testo/Giulio Badini – Foto/Anna Maria Arnesano – in apertura – Arco di Trionfo, conosciuto anche come arco di Settimio Severo nella via colonnata – Copertina – Tetrapilo