Per noi la noce moscata costituisce un additivo gastronomico secondario, usato per dolci, creme, purè e ravioli, acquistabile per pochi euro dal droghiere sotto casa. Ma ci fu tempo, un tempo piuttosto lungo in passato, nel quale questa noce dall’aroma raffinato dolce e piccante insieme rappresentava una delle spezie più ricercate e costose in assoluto, tanto da valere più dell’oro. Ne bastava un sacchettino per cambiare la vita ad una persona. Conosciuta e impiegata fin dall’antichità rivestiva, come altre spezie, un ruolo importante nella conservazione delle carni. Prima dell’invenzione recente del freddo artificiale, le carni tendevano ad adulterarsi in fretta, pur conservando intatte le proprietà nutritive.
Per allungare i tempi di durata e togliere i cattivi odori si faceva un ricorso massiccio alle spezie, capaci di bloccare i processi degenerativi e di confondere i sapori con i loro gusti prepotenti. E per millenni fu la fortuna delle spezie esotiche, un po’ il petrolio dell’antichità. A contribuire al grande successo della noce dal forte sapore di muschio intervennero anche medici e speziali, attribuendole un notevole numero di proprietà terapeutiche: un potente antisettico naturale capace di guarire da un sacco di malanni. E intanto il prezzo lievitava. A farlo arrivare alle stelle fu la diceria che fosse anche un potente afrodisiaco e l’unico rimedio in commercio contro la peste, una pandemia che in passato falcidiava ciclicamente la popolazione europea. Il commercio della noce moscata nel continente faceva capo ai Veneziani, che si approvvigionavano a Costantinopoli; i turchi la acquistavano dagli arabi, che si rifornivano in India, ma nessuno sapeva di preciso da dove arrivasse. Fatto sta che ad ogni passaggio di mano il prezzo lievitava.
Verso la fine del 1400 si venne a sapere che l’albero della Myristica fragrans cresceva, endemico, unicamente in alcune minuscole isole chiamate Banda, estremo gruppo meridionale dell’arcipelago indonesiano delle Molucche, un migliaio di isole grandi e piccole disseminate in un enorme tratto di oceano Pacifico tra Sulawesi, Nuova Guinea, Filippine, Timor e Australia, da cui provenivano anche chiodi di garofano e cannella. Le Banda sono una decina di isolette e scogli montuosi, di difficile approccio, fuori dal mondo, con un vulcano piuttosto attivo, popolate per giunta da selvaggi cannibali e tagliatori di teste fino a poco tempo fa. Il miraggio di guadagni spropositati attingendo direttamente alla fonte (si sarebbe arrivati fino ad uno stratosferico 60 mila per cento !), mise le flotte europee in gara a chi fosse arrivata per prima, facendo nascere le famose Compagnie delle Indie Orientali per finanziare le spedizioni. Il percorso tradizionale, doppiando l’Africa, comportava rischi enormi: per un viaggio occorrevano almeno 2-3 anni, solo una nave su tre faceva ritorno e ben pochi erano gli uomini che riuscivano a rimettere piede in patria, falcidiati da tempeste, malattie, predoni. Possiamo anzi dire che la gran parte delle grandi scoperte geografiche dell’epoca non miravano a reperire nuove terre, ma a trovare una via più agevole per raggiungere le Indie e le sue spezie.
Lo stesso Colombo non cercava affatto l’America, di cui neppure supponeva l’esistenza, ma una strada più corta per arrivare ai tesori del sud-est asiatico. Alla fine, nel 1600, la spuntarono gli olandesi su inglesi, portoghesi e spagnoli, dando in pratica inizio al colonialismo europeo, assicurandosi per tre secoli il lucroso monopolio della noce moscata in Europa, fino a quando nel 1800 il prezzo e i consumi crollarono e le piantagioni vennero spostate altrove. Per assicurarselo però dovettero fare agli inglesi una piccola concessione territoriale, in un altro luogo lontanissimo dove però le due nazioni si stavano fronteggiando: dovettero infatti cedere l’allora selvatica isola di Manhattan nel Nord America, tanto che la minuscola New Amsterdam divenne presto New York. E per secoli gli olandesi, che avevano il coltello dalla parte del manico, pensarono di aver fatto un buon affare e di aver fregato gli inglesi.
Un viaggio di scoperta alle Molucche (moluku in indonesiano), ancora poco avvezze al turismo e riservato pertanto solo ad esperti viaggiatori, non consente solo di avvicinarsi un po’ come pionieri alle terre endemiche della noce moscata e dei chiodi di garofano, ma anche di visitare fortezze e abitati coloniali, uno dei più affascinanti e remoti parchi nazionali indonesiani, di navigare e nuotare tra stupende spiagge incontaminate e intatte barriere coralline ricche di biodiversità, nonché di entrare in contatto con popolazioni indigene selvatiche di ex cannibali. Si comincia ovviamente con l’arcipelago di Banda, dove non esistono auto, per perdersi tra le verdi e odorose piantagioni di Myristica fragrans, ville coloniali olandesi, spiagge da cartolina, acque cristalline, giardini di corallo e un vulcano attivo che sembra la versione ridotta del Fuji Jama giapponese. Si passa quindi a Seram, una delle isole maggiori delle Molucche, caratterizzata da imponenti montagne alte fino a 3.000m che scendono a picco su spiagge selvagge e barriere coralline, ricoperte da foreste e da odorose piante di chiodi di garofano.
Da visitare c’è il Manusela national park, la cui fittissima giungla e la foresta pluviale rivierasca presentano mangrovie, palme, muschi e felci, e poi giganteschi alberi di marante, kelimbin e ficus dalle enormi radici aeree, dove trovano riparo cinghiali, cervi e coccodrilli e, soprattutto, un gran numero di uccelli come buceri, aquile, pappagalli e gli endemici rarissimi cacatua. Qui attende un’esperienza unica: si potrà essere comodamente issati su una piattaforma aerea ubicata sulla cima della canopea, la volta della foresta tropicale, per ascoltare i rumori della giungla. Ultima emozione il contatto con alcuni indigeni selvaggi ex tagliatori di teste, che vivono in maniera preistorica di caccia e di raccolta nascosti nell’intimo della foresta.
Testo/Giulio Badini Foto/Internet – Ricerca iconografica: Claudio Busi