Fra gli eventi riguardanti l’Antico Egitto periodicamente proposti al pubblico, risulta particolarmente significativo quello ospitato, dal 13 settembre 2017 al 7 gennaio 2018, presso il MUDEC – Museo delle Culture di Milano – dal titolo “La straordinaria scoperta del Faraone Amenofi II”. Nonostante l’inflazione provocata dall’egittologia a livello globale, col conseguente grande richiamo di pubblico ad ogni occasione, la mostra milanese offre il notevolissimo pregio di puntare i riflettori su un personaggio e un periodo storico della civiltà egizia scarsamente trattati dai media. Per una volta infatti non si parla di Tutankhamon, Akhenaton o Nefertiti, e nemmeno di Ramses II e dei suoi tempi, bensì di una fase della XVIII Dinastia governata da sovrani altrettanto potenti, anche se meno conosciuti.
Ma esiste una connessione del re Amenofi II con il capoluogo lombardo? La connessione c’è, e appare anche molto importante. Dobbiamo infatti agli encomiabili sforzi della prof.ssa Patrizia Piacentini, titolare della Cattedra di Egittologia dell’Università Statale e organizzatrice assieme alla sua équipe della mostra, se oggi Milano può vantarsi di conservare preziosi documenti risalenti all’epoca in cui in Egitto venivano compiute eclatanti scoperte archeologiche di risonanza mondiale. La Biblioteca dell’Ateneo, con uno sforzo economico assai rilevante, anni fa acquisì insieme ad altre raccolte anche l’archivio storico completo di diari, appunti, fotografie e disegni riguardante gli scavi nella Valle dei Re compiuti da Victor Loret, l’archeologo francese che operava per conto del Service des Antiquités de l’Égypte, autore della scoperta della tomba del faraone Amenofi II.
L’esposizione allestita al Mudec propone dunque un nutrito campionario di reperti archeologici e documenti di vario genere capaci di introdurre alla Civiltà Egizia, e che attraverso un percorso guidato conducono il visitatore fino al cospetto di re Amenofi II (Aakheperura Amenhotep, nell’antica lingua) raffigurato su statue e stele. Amenofi II era nato attorno al 1420 a.C. dall’unione fra il grande faraone Thutmose III e la principessa Merytra-Hatshepsut, figlia minore dell’altrettanto celebre regina/faraone Hatshepsut, titolare del rinomato tempio di Deir el Bahari a Tebe Ovest, meta obbligata di tutti i turisti che raggiungono Luxor. Una volta salito al trono il giovane sovrano cercò di emulare le gesta di suo padre, compito assai difficile in quanto l’abilità militare e le conquiste di Thutmose III non furono mai eguagliate da nessun altro sovrano egizio. Tuttavia Amenofi dimostrò di essere un condottiero di polso e fermezza: egli infatti non esitò nell’ inviare spedizioni militari (alle quali partecipò personalmente), per soffocare i moti di ribellione scoppiati alla morte di Thutmose III fra le popolazioni sottomesse all’Egitto dell’area siro-palestinese. Ritornando in patria dopo la guerra nel Medio Oriente condusse con sé macabri trofei, con l’evidente scopo di prevenire altre possibili ribellioni in Nubia, la vasta regione a sud dell’Egitto. Una stele rinvenuta nel sito archeologico di Amada, a monte della prima cateratta del Nilo, infatti recita: “… quando Sua Maestà ritornò col cuore pieno di gioia da suo padre Amon, egli massacrò con le sue proprie armi i sette principi del distretto di Takhsy e li appese a testa in giù alla prua della nave di Sua Maestà il cui nome è «Aakheperura, il Pacificatore delle Due Terre». Sei di questi nemici furono in seguito appesi davanti alle mura di Tebe, come pure i loro servi. Il settimo fu inviato nella Nubia e appeso alle mura di Napata affinché la vittoriosa potenza di Sua Maestà fosse visibile per sempre…” Certamente si tratta di una situazione in grado di colpire la fantasia, e la visione dell’imbarcazione reale che risale il Nilo con i cadaveri dei prigionieri penzolanti a testa in giù dalla prua, doveva senza dubbio rappresentare uno spettacolo fuori dal comune.
Concluse le imprese belliche, Amenofi II ebbe come sposa principale la regina Tiaa, la quale gli diede alcuni figli fra i quali il suo successore, il futuro Thutmose IV. In patria il re avviò la costruzione di numerose opere pubbliche, nelle maggiori città del paese. A Tebe, nella Valle dei Re, fece realizzare la propria tomba, monumento sepolcrale che ancora oggi desta meraviglia per la sua bellezza, e diventato giustamente famoso per quanto conteneva quando fu scoperto. Sempre sulla riva occidentale del Nilo il re ordinò l’erezione del suo tempio di “Milioni di Anni”, i cui resti sono visibili accanto al ben noto Ramesseum, l’enorme complesso eretto circa centocinquant’anni dopo da Ramses II. Purtroppo alla morte del faraone il tempio cadde lentamente in disuso, e con il trascorrere del tempo fu totalmente abbattuto per il recupero e il riutilizzo dei blocchi di pietra nella costruzione di altre strutture. Quando i primi viaggiatori europei giunsero in Egitto, fra il XVII e XIX secolo, l’edificio non esisteva più e al suo posto c’era solo un cumulo di macerie ricoperte di sabbia.
Nel 1895 la collina di detriti fu parzialmente scavata dall’egittologo inglese Sir Flinders Petrie, il quale riuscì a rilevare solo parzialmente l’antica planimetria ed a individuare alcune basi delle colonne ancora in situ, un tempo facenti parte del porticato. Poi, partito Petrie, tutto fu di nuovo abbandonato per quasi un secolo, fino al momento in cui, nel 1998, furono intrapresi nuovi scavi dalla Missione Archeologica Italiana del Centro di Egittologia “Francesco Ballerini” di Como, diretto dal prof. Angelo Sesana. Nonostante il tempio fosse stato completamente demolito, nonché già indagato dagli onnipresenti ladri di tombe e da Sir Petrie, il minuzioso e difficile scavo effettuato dalla Missione Italiana con l’impiego di centinaia di maestranze locali ha permesso di stabilire con sufficiente certezza le reali dimensioni della struttura. Il grandioso sterro ha anche consentito il recupero di una copiosa serie di reperti archeologici risalenti ad epoche diverse, il che dimostra come il sito fosse stato occupato quasi senza soluzione di continuità fino all’epoca romana, cristiana ed oltre. Dopo il suo abbandono come monumento dedicatorio, l’area fu adibita a necropoli e numerose tombe a pozzo con camere sotterranee furono scavate e riempite di cadaveri. Attualmente il Centro “F. Ballerini” risulta impegnato nelle operazioni di salvaguardia e conservazione di quanto riportato alla luce in quasi vent’anni di scavi.
Amenofi II regnò sull’Egitto per circa 24 anni, e quando morì il suo corpo imbalsamato fu inumato nella grande e bella tomba della Valle dei Re, registrata come “KV35” nell’elenco della necropoli reale. Qui rimase, nonostante vari saccheggi e intrusioni perpetrati nell’antichità, fino agli albori del XX Secolo. Come già accennato, agli inizi di marzo del 1898 nella Valle dei Re operava una missione archeologica guidata dall’egittologo francese Victor Loret. Lo studioso era già da tempo impegnato nella ricerca di nuove tombe, e la sua costanza fu premiata col ritrovamento di due importantissimi sepolcri, quello di Thutmose III e quello di suo figlio, il nostro Amenofi II. Ma seguiamo le vive parole scritte da Loret nel suo lungo racconto[1] riguardante l’eccitante scoperta: “… Rientrato a Tebe, ripresi la direzione dei lavori e l’8 marzo avevo acquisito la certezza che ci trovavamo sotto l’entrata di una nuova tomba. Questa entrata si trovava scavata alla base di una parete a picco molto alta, in un angolo tagliato artificialmente […] tanto che, verso sera si vide apparire una parete pressoché liscia, che non poteva essere altro che la parte superiore della porta. L’indomani mattina, 9 marzo, il lavoro riprese. Oltre la parete di fondo, si evidenziarono a poco a poco due pareti perpendicolari, una a destra e l’altra a sinistra, esse formavano un vano per le scale che non lasciava ancora intravvedere né i gradini né la porta, alla quale avrebbe condotto. Qualche piccolo oggetto di porcellana era stato trovato il giorno prima, portante dei frammenti di cartigli. Avevo concluso, esaminando questi frammenti di cartigli, che dovevano appartenere ad un re della XVIII Dinastia. Ma quale? Il segno ‘âa’, “grande”, seguito dallo scarabeo ‘kheper’, mi faceva esitare fra Thutmose I, Thutmose II e Amenophis II. Il 9, il dubbio scomparve: si rinvenne un frammento di statuetta funeraria in marmo grigio portante il nome di Amen-Hotep. I miei scavi seguivano dunque, essi stessi, un ordine cronologico. Dopo la tomba di Thutmose III, ero alla vigilia di scoprire quella di suo figlio, Amenophis II […]. Così la sera stessa del 9 marzo le speranze dell’archeologo francese vennero premiate, ed ebbe la certezza che la tomba era proprio quella di Amenofi II.
“… Fu solamente la sera, alle ore sette precise, che l’altezza della porta, sufficientemente liberata, permise l’entrata nella tomba ad un uomo deciso a strisciare verso l’ignoto. Il Rais (capo degli operai) degli scavi entrò per primo, portando una candela. Io lo seguii. Dei grossi blocchi di calcare emergevano sotto ai nostri corpi, e non fu che dopo una dozzina di metri che potemmo alzarci in piedi. L’aspetto della galleria mostrava che la tomba non era vergine. Io me lo aspettavo, a causa degli antichi detriti trovati all’esterno, ma il Rais, meno archeologo, lo constatò con tristezza. Sempre scendendo, finimmo per trovarci sul bordo di un largo e profondo pozzo che non mancò di farci pensare in quale modo lo avremmo superato. Dall’altro lato del pozzo, nella parte alta della parete, si distingueva vagamente, alla flebile luce della candela, una macchia scura che non poteva essere che la continuazione della tomba. Uscimmo e decidemmo di lavorare per tutta la notte, feci sgombrare maggiormente la porta d’ingresso per introdurre delle scale, delle corde e dei lumi […] raggiungemmo di nuovo il bordo del pozzo. Facemmo scendere una scala nel vuoto appesa ad una corda, essa si rivelò troppo corta e si arrestò ben al di sotto del livello in cui noi eravamo. Discendemmo aggrappati alla corda in modo da arrivare al primo gradino, poi raggiungemmo il fondo del pozzo, che risultò completamente ingombro di scaglie di pietra e frammenti di travi. A destra, lo stipite superiore di una porta si intravedeva al di sotto dei detriti. Probabilmente si trattava dell’entrata di una camera o di una galleria scavata sul fondo del pozzo. Ma al momento poco importava. Sistemammo la scala dall’altra parte, di fronte all’apertura che avevo notato un’ora prima. Il Rais salì con una candela e io lo seguii. In cima alla scala constatammo che la chiusura della porta non era stata demolita per intero, per cui erano in posto due o tre fila inferiori di pietre che bloccavano l’apertura. Un robusto ramo d’albero, solidamente incastrato fra i due montanti, doveva essere, anticamente, servito ai violatori, per fissarvi una corda.
Giunti al livello inferiore della porta, intravidi due pilastri quadrangolari. Più vicino, sul suolo, vivamente rischiarato dal lume, un grande serpente arrotolato su sé stesso sembrava rappresentare il genio del luogo. Era in legno dipinto di bianco, con la testa mancante. A fianco c’era un rotolo di corda; poi un’altra corda terminava con una sorta di rete che avvolgeva una pesante pietra. Erano gli attrezzi lasciati dei violatori. Entrammo […] ovunque il suolo era ricoperto di oggetti spezzati: pietre cadute dalla porta murata, giare frantumate, frammenti di legno ed alabastro. Fra questi, non lontana dal serpente, si distingueva una graziosa, piccola testa di legno scolpito. Infine, presso il pilastro e la parete di destra, vidi, una in piedi e l’altra adagiata su un fianco, due grandi barche che misuravano almeno due metri, dipinte di vivi colori. A lato, sullo strato di macerie, vi erano dei fiori di loto e degli ombrelli di papiro dipinti di blu; si trattava delle prore e delle poppe delle barche, staccatesi col passare del tempo. Presso le due colonne vi era un’altra barca ed una quarta, era appoggiata alla parete di fondo. Avanzai con una candela e, orribile spettacolo, vidi un cadavere deposto nella barca, tutto nero e orrido, il suo volto ghignante era rivolto verso di me e mi guardava, la sua lunga capigliatura bruna coi riccioli in disordine attorno alla testa. Non pensai nemmeno per un attimo che poteva trattarsi semplicemente di una mummia sbendata. Le gambe, le braccia sembravano legate. C’era un foro scavato nello sterno ed una fessura aperta sul cranio. Era la vittima di un sacrificio umano? Si trattava di un ladro d’altri tempi assassinato dai suoi compagni, in una sanguinosa spartizione del bottino, o ucciso dai soldati di polizia sopraggiunti nel bel mezzo del saccheggio della tomba? […] Sul fondo una porta s’apriva nell’oscurità. Avanzammo, l’illuminazione aumentò e, con stupore, distinguemmo una immensa sala completamente decorata, sostenuta da due file di tre pilastri sui quali erano dipinte scene di gruppo a grandezza naturale che raffiguravano un re al cospetto di una divinità. Era lui! Era proprio Amenophis II. Col suo prenome e nome nei cartigli. Non c’era alcun dubbio. Era il figlio di Thutmose III. Fu l’inizio della strana serie cronologica che segnò i miei lavori per quell’inverno…”
Ma le sorprese di quella esplorazione erano ben lungi dall’essere finite. Gli scavatori notarono subito come la bella camera sepolcrale fosse completamente ingombra di detriti, con oggetti del corredo funerario frantumati e scaraventati da ogni parte in una confusione indescrivibile; si trattava certamente del risultato dei saccheggi perpetrati dai ladri di tombe. La camera terminava sul fondo con una serie di gradini discendenti che davano adito ad uno spazio più basso di circa un metro e mezzo rispetto al pavimento della camera principale. L’ambiente formava una specie di cripta, al centro della quale era situato uno stupefacente sarcofago di quarzite dipinto di rosso e ricoperto di immagini di divinità e iscrizioni geroglifiche. Loret si avvicinò trepidante al sarcofago, mancante del coperchio, chiedendosi “…ma sarà vuoto?…”; sul manufatto c’erano ovunque i nomi ed i titoli di Amenofi II. Si chinò sul bordo facendo luce con una candela e… “Vittoria!”, sul fondo giaceva una bara di colore scuro, sulla quale dalla parte della testa era deposto un mazzo di fiori e dal lato piedi una corona di foglie. Così dopo tutto, nonostante i devastanti saccheggi, il faraone giaceva ancora nel proprio sepolcro, caso unico in tutta la Valle dei Re prima della scoperta della tomba di Tutankhamon. Nel corso di quella prima indagine nella camera sepolcrale della tomba di Amenofi II furono notate, sulle pareti di destra e di sinistra rispetto all’ingresso, quattro aperture, due per parte, che immettevano in altrettante camere laterali più piccole. La prima a sinistra conteneva una quantità di giare spezzate, il cui contenuto era colato sul pavimento. Nella seconda, oltre ad altri vasellami, c’era sul fondo la statua in legno bitumato di nero di una pantera simile a quelle rinvenute nella tomba di Thutmose III. Furono poi esaminate le due camere sulla destra. Dalle parole di Loret, uno spettacolo incredibile si rivelò ai loro occhi. Nella prima, presso la parete sinistra, c’erano tre mummie sistemate una accanto all’altra: si trattava di due donne e un ragazzo. Purtroppo sui corpi non c’era alcuna iscrizione o indicazione a rivelarne la loro identità, tuttavia colpì la mummia della donna più anziana: infatti era ancora dotata di una capigliatura foltissima. In seguito ad analisi tricologiche e, nel 2010, con l’estrazione del DNA, è stato confermato che si tratta nientemeno del corpo imbalsamato della Regina Tiye, la madre di Akhenaton, il celeberrimo “faraone eretico”.
In quella lunga ed irripetibile giornata era ormai rimasta solo una camera da esplorare, la seconda a partire da destra. Se fino a quel momento le sorprese erano state innumerevoli e inaspettate, ciò che scoprirono fu ancora più eclatante. L’ingresso della camera appariva occluso da file di pietre squadrate e malta fin quasi allo stipite superiore. Solo nell’angolo destro, in alto, ne mancavano alcune. Infilando prima la testa e poi una candela per sbirciare all’interno, Loret rimase senza parole: infatti alla tremolante luce riuscì a distinguere la presenza di nove feretri adagiati sul pavimento, la cui appartenenza non era al momento possibile stabilire. Prima di entrare nell’annesso era necessario procedere alla rimozione dei detriti che ingombravano la camera sepolcrale. Loret, da scrupoloso archeologo quale era, decise di interrompere l’esplorazione e di rimandare ulteriori indagini man mano sarebbero proseguiti i lavori di sgombero. Così passarono molti giorni prima che si potesse procedere all’apertura della camera con i feretri. Quando ciò venne fatto, si scoprì che le bare contenevano le mummie di nove sovrani vissuti in varie dinastie, dalla XVIII alla XX. Questo fatto fece comprendere come il sepolcro di Amenofi II fosse stato riutilizzato, in epoca molto successiva al periodo di regno del re, per nascondervi i resti mortali di sovrani recuperati nelle loro tombe dai responsabili della necropoli, in un periodo in cui i saccheggi, le ruberie e le distruzioni nella Valle dei Re erano diventati così gravi e sistematici da rendere impossibile una sorveglianza efficace. Così si tentò almeno di salvare le mummie reali radunandole insieme in nascondigli collettivi, e di conseguenza più facili da controllare. Quando furono estratti, i feretri risultarono contenere le spoglie di: Thutmose IV, Amenofi III, Seti II, Merenptah, Siptah, Ramses IV, Ramses V, Ramses VI e una mummia femminile che si suppone sia quella della regina Tausert.
Per concludere, la storia della tomba di Amenofi II sarebbe ancora molto lunga da raccontare, ma in questa sede ci sembra sufficiente aver offerto un riassunto delle fasi salienti della sua scoperta, avvenuta in un’epoca in cui l’egittologia era ancora una scienza giovane. Nella mostra allestita al Mudec sono esposte alcune delle pagine originali dei diari di Loret, scritte nel momento in cui venivano esaminati i reperti della tomba. Accanto è possibile ammirare parte delle fotografie, stampe vintage scattate nel corso delle operazioni di sgombero. In altre vetrine risulta visibile una selezione di reperti originali risalenti agli anni di regno di Amenofi II, inclusi alcuni preziosi capolavori del corredo funerario provenienti dalla tomba, concessi appositamente in prestito dal Governo Egiziano. Come sorpresa finale, è stata realizzata una splendida copia in scala minore della camera sepolcrale, completa di rilievi e dipinti. Il visitatore potrà così farsi un’idea della ricchezza costituita da questo particolarissimo sepolcro, patrimonio dell’Umanità, nonché prova tangibile del livello di raffinatezza e cultura raggiunta dalla straordinaria civiltà che nacque, prosperò e scomparve sulle rive del Nilo.
Info: Mudec, via Tortona 56, 20144 Milano, www.mudec.it/ita/egitto/ – tel. 02 54 917 –info@mudec.it – Biglietti: hepdesk@ticket12ore.it – Prezzi: adulti € 14,00, bambini € 9,00.
Testo/Claudio Busi – Foto/Claudio Busi, Carlotta Coppo e Google Immagini
[1] Loret V., Les Tombeaux de Thoutmes III et d’Amenhophis II, in Bulletin de l’Institute Égyptien (BIE), Il Cairo 1899.