Durante il brindisi di Capodanno, l’augurio ricorrente è che l’anno entrante sia migliore, ma, come spesso succede, tra il dire e il fare – a sentire il proverbio – c’è di mezzo il mare. Anzi, più precisamente il male. Perché il 2020 ha presentato ben presto le sue credenziali, con un nemico invisibile ma implacabile che ha rimesso in discussione le nostre certezze. Così, mentre a metà febbraio nella mia Roma si festeggiava il primo secolo di vita della Garbatella, rione popolare conosciuto ai più per la fiction Tv su ‘I Cesaroni’, a migliaia di chilometri da noi si parlava di uno strano virus.
Stando fuori città per lavoro, mi ero proposto di tornare lì dove ho passato la mia gioventù, per fare qualche foto ricordo del centenario. Purtroppo pochi giorni dopo si seppe che quel virus maligno che stava imperversando a Wuhan, a differenza della Sars del 2003 (Severe Acute Respiratory Syndrome), era arrivato in silenzio da noi.
Wuhan è una provincia cinese di undici milioni di abitanti oltre ad essere un importante nodo commerciale per tutto il mondo, geograficamente molto lontana da noi, ma, che porti a pensare a ciò che successe nell’aprile del 1986, quando nel bel mezzo di una calda primavera, una nube radioattiva sprigionatasi una settimana prima dalla centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, incombeva sulle nostre teste.
In poco tempo il’Coronavirus’, com’è stato chiamato inizialmente questo indesiderato “ospite”, ha bussato alla nostra porta di casa fino a segnare nel profondo il nostro Paese. Così, mentre sbocciavano i fiori e si avvicinava la Pasqua, dalle Tv solo i numeri del contagio, immagini di ospedali al collasso, medici e infermieri protetti come nei film di fantascienza, città deserte e supermercati presi d’assalto. Racconti indiretti della “normalità” delle nostre giornate da reclusi in casa. Piazza della Signoria o San Marco, in città come Firenze e Venezia, dove si era addirittura ipotizzato il numero chiuso per i troppi turisti, sono oggi più che mai in mano a piccioni e gabbiani. Come questa mia Roma, città fantasma che il 21 aprile ha “festeggiato” i suoi MMDCCLXXIII anni di vita (753 a.C.). Una Dies Romana – come anticamente era chiamato il Natale di Roma – senza sfarzi, parate di figuranti in abiti d’epoca, celebrazioni solenni. Una Roma muta, vuota, triste e silenziosa ma piena di luce. Quella che ogni 21 aprile a mezzogiorno, entra nell’oculus del Pantheon, per illuminare con un fascio quel portale d’ingresso da cui entrava l’Imperatore. Già, il Pantheon, a due passi dal mondo della politica, tra il Parlamento e Palazzo Madama. Solitario esempio dell’arte edificatoria romana, la “rotonna”, come la chiamano i vecchi abitanti del rione Pigna per la sua forma geometrica, con il selciato vuoto e le botteghe attorno chiuse, fa da corollario a questa Roma mai vista così da sempre. Perché basta fare un giro per il centro storico della città, per vedere deserta Piazza Navona, Fontana di Trevi, Trinità dei Monti, il Foro Romano, Porta Pia, il Muro Torto, la Stazione Termini l’Eur.
Trasformata nel suo intimo, senza il vocio e la confusione della gente per le strade, deserte come le ville, parchi e viali. Nonostante il sole primaverile scaldi l’aria, invogliandoti a uscire.
Sembra di stare nel set cinematografico del film del 2013 ‘The Last Days’, quando una pandemia dovuta a un virus (guarda la coincidenza), costringeva le popolazioni a vivere sottoterra. Ma non è stato sempre così, almeno all’inizio. Perché alle diciotto e per tanti giorni di seguito, la gente si è affacciata da finestre e balconi per cantare tutti assieme, sventolando le bandiere tricolori e battendo pentole e coperchi a ritmo. Una forma di terapia psicologica collettiva all’insegna del «Tutto andrà bene».
Il paradosso è stato l’annuncio che per Pasqua si sarebbe goduto di belle giornate di sole. La prima volta, dopo anni di pioggia, che si sarebbe potuto ritornare a fare la scampagnata fuori porta per Pasquetta, come da tradizione. Invece è stata l’ulteriore beffa di questa nostra esistenza sospesa, mentre l’orologio della vita cammina svelto senza fare sconti a nessuno e i programmi per le vacanze ormai finiti nel tritarifiuti dei ricordi, come scarti di esistenza che vorremmo cancellare. Avremmo voluto credere che sia stato solo un brutto sogno, invece è un incubo reale che detta le regole della nostra esistenza, i rapporti sociali, affettivi, lavorativi. Al mattino successivo la vita riprende uguale come ieri e come sarà domani, senza più guardare il calendario, ma con l’immancabile conferenza stampa serale in tv, dove gelide facce di circostanza, snocciolano i freddi numeri della battaglia giornaliera contro questo nemico invisibile. Una pandemia che ci ha attaccati nel fisico, nello spirito e nelle tasche, mettendo in ginocchio la nostra economia. Sono oltre quattro milioni i lavoratori autonomi che hanno ricevuto un bonus da 600 euro per sopravvivere non si sa per quanto, e da oltre 300mila aziende sono state inoltrate domande per la Cassa integrazione, per circa 4,5 milioni di dipendenti. Una non vita: con il timore di abbracciarsi anche se si vive nella stessa casa, impossibilitati a partecipare al funerale dell’amico morto, costretti a lunghe file per acquistare generi di prima necessità al supermercato o a mendicare i “pacchi alimentari” per la sopravvivenza, da associazioni e parrocchie.
Una Roma che per la prima volta, da quando si celebra al Colosseo, la Via Crucis è stata trasmessa in Mondovisione, con un solitario Papa Francesco sul sagrato di San Pietro, davanti a una piazza vuota. La Città Eterna si presenta ai nostri occhi indagatori apparentemente addormentata, ma pulsante tra le mura casalinghe, con il silenzio rotto dal suono di una sirena in lontananza e qualche litigata tra vicini stressati. Un gabbiano a mezzo metro da noi ci guarda con irriverenza dalla spalletta del Fiume, quasi con aria di sfida. Sotto i ponti accampamenti di disperati, che nell’abbandono hanno trovato un’effimera libertà. Dall’alto del Pincio, il tramonto riflette una luce viva su Piazza del Popolo, riempiendola di quel calore che le dava la gente.
Dov’è quella calca che ti toglieva il respiro la mattina in metropolitana andando al lavoro? Dove sono quelle file interminabili di turisti davanti al Colosseo o ai Musei Vaticani? E i gruppi di fedeli che da tutto il mondo arrivavano a Piazza San Pietro con i loro cappellini colorati e fazzoletti al collo, che faranno adesso? Mi mancano persino i camion bar e le bancarelle che deturpano i luoghi storici, i tavolini dei ristoranti e bar che limitano il passaggio sui marciapiedi, quei capannelli di dubbie guide turistiche in attesa dei pullman, che andranno poi a bloccare il traffico nelle vie del centro. E persino i finti centurioni romani, i mimi e i venditori di caldarroste.
Attraversiamo il ponte verso Castel Sant’Angelo, passando sotto lo sguardo austero dei santi patroni di Roma, gli apostoli Pietro e Paolo. Lungo il tragitto ci fanno compagnia le dieci statue marmoree degli angeli con in mano i simboli della Passione di Cristo. In lontananza un’auto della Polizia Locale è ferma all’angolo di via della Conciliazione. Da lì lo sguardo, libero da persone e automobili, spazia fino alla piazza vuota del colonnato del Bernini, dominata al centro dall’alto obelisco di origine egizia in granito rosso. Dietro il sole sta ormai tramontando e si cominciano ad accendere le luci sull’austera Basilica di San Pietro, mentre un autobus con due passeggeri ci passa accanto: saranno lavoratori del vicino ospedale che tornano a casa?
Testo/Maurizio Ceccaioni – Foto/Maurizio Riccardi – Foto d’apertura – Trinità dei Monti, ieri e oggi
Maurizio Riccardi, fotografo e giornalista, è direttore del Gruppo AgrPress di cui fanno parte l’agenzia fotografica Agr, la Banca Immagini Riccardi, la sezione Audiovisivi /web e la sezione Comunicazione