Era il 1986. Con me uno zaino e l’entusiasmo di essere, solo, in uno degli angoli più nascosti e remoti del pianeta, a confrontarmi con le mie ambizioni e le mie paure. Interpretate da una magnifica montagna, perfetta, stagliata nel cielo senza confini dell’Himalaya, il Nun. Colosso di pietra e ghiaccio di oltre 7000 metri, che avrei scalato tracciando, sulla sua parete nord, la prima salita in solitaria… Eppure, svanita l’euforia della vetta, e metabolizzata l’ambiziosa consapevolezza di essere riuscito a superare un confine quasi invalicabile nelle mie emozioni e nella conoscenza dei miei limiti, fisici e mentali, di quell’esperienza ricordo soprattutto infinite giornate, divenute settimane, e poi mesi, di vagabondaggi senza meta tra gli sterminati paesaggi d’alta quota…
Il volo del falco
Non era ancora l’epoca del turismo e dei lodge, e spesso avevo chiesto ospitalità nei monasteri che, allora, erano ancora vivi di monaci e di umanità. Da qualche giorno mi trovavo a Tik-se e avevo ormai imparato i tempi e i ritmi di quel microcosmo che sembrava immobile, sospeso nel tempo e nello spazio. Il momento più straordinario della giornata era il tardo pomeriggio, quando le attività dei monaci si fermavano, cessava il ritmo ipnotico delle campane e dei tamburi di preghiera, e il silenzio diventava protagonista di quell’universo di rocce, ghiaccio, sabbia e cielo. Ricamato, impreziosito da luci taglienti che, lentamente, si ammorbidivano scaldandosi con l’aria della sera. Seduto sul tetto-terrazzo di una delle torri del monastero, osservavo quel quadro, sognato e desiderato in mille fantasie, capace di riempirmi gli occhi e i pensieri. Vicino a me, un giovane monaco, in silenzio, viveva insieme a me quel momento immobile di vita.
Improvviso, un magnifico rapace si era materializzato nel cielo. A una decina di metri da noi, sostenuto dal vento, veleggiava nel vuoto, apparentemente immobile. Con minimi ma rapidissimi movimenti delle remiganti riusciva a rimanere sospeso nell’aria. Lentamente, con una lieve rotazione del capo che aveva messo in risalto l’occhio nero e profondo, ci aveva osservato. Quasi a farci pesare la nostra condanna di prigionieri in un mondo solido, finito, fatto di confini e barriere. In un attimo i miei pensieri erano diventati i suoi. Avevo provato a immaginare le emozioni di vedere quello straordinario palcoscenico dall’alto. Avevo simulato, con i pensieri, il suo volo. Mi ero chiesto da dove poteva arrivare e dove sarebbe andato. Avevo provato a dare un senso all’idea di essere padrone del cielo. Quell’uccello aveva scatenato una valanga di domande e il tentativo, inutile, di trovare risposte. Un’eccitazione che turbava quell’attimo perfetto. Il bisogno di sapere, di immaginare, di capire, di dare un senso e un motivo a ogni emozione.
Solo un uccello
Poi il falco, sempre con impercettibile lentezza, aveva inclinato un’ala verso il basso ed era scivolato, come un colpo di pennello sciabolato nell’aria, in una picchiata tra le rocce.
Mi ero voltato verso il mio occasionale compagno. Aveva lo sguardo perso nell’infinito. Sicuramente l’aveva osservato, eppure non tradiva nessuna delle sensazioni che mi avevano eccitato.
«L’hai visto?»
«Sì.»
«E cos’hai pensato?»
«A un uccello…»
Le mille domande ed emozioni che aveva scatenato il falco nei miei pensieri si erano infrante, dissolte in quella semplice constatazione. La mia frenesia di capire, supporre, ipotizzare l’essere uccello, mi aveva fatto perdere la bellezza e la grandiosità di quell’attimo. Non ne avevo percepito l’essenza, l’anima, né lo avevo goduto appieno, distratto da pensieri e quesiti inutili, perché inesorabilmente privi di risposte…Il mio amico tibetano, assuefatto all’arte di osservare senza giudicare, conseguenza di infinite generazioni di esistenze meditative, aveva semplicemente congelato la realtà, senza perdere tempo a chiedersi il prima e il dopo delle cose. Focalizzando sul soggetto la sua attenzione, aveva “fotografato” in modo esatto, nella mente, e reso eterno nella memoria, quell’attimo irripetibile…
Nel Paese dell’aria sottile
Quante volte sono tornato? Potrei dire “…molte, non ricordo quante…” invece, quest’anno, percorrerò per la ventiduesima volta le piste sterrate che si arrampicano sui fianchi dei contrafforti himalayani di questa piccola regione, ancora contesa da India, Cina e Pakistan. L’ultimo territorio dove sopravvive, libera, la cultura buddista tibetana. Fulcro di una società umana che affonda le sue radici nel passato remoto, se le prime tracce della religione Bon, legata allo sciamanesimo e all’animismo, e su cui si innestarono molti principi cardine del buddismo, risalgono ai primordi delle culture umane, molte migliaia di anni fa.
Un luogo dalle atmosfere incantate, il Ladakh. Sarà per l’aria rarefatta che colora il cielo di cobalto e consente agli sguardi di correre su orizzonti infiniti di deserti, rocce, ghiacci, punteggiati di chiazze verde smeraldo dei campi coltivati e impreziositi dai profili enigmatici di monasteri arroccati, in luoghi apparentemente inaccessibili. Dove ancora riesco a percepire l’essenza primordiale della vita dei nomadi delle montagne, nonostante l’inevitabile contaminazione del turismo e la presenza sempre più consistente dei mercanti stagionali musulmani, arrivati dall’India dopo l’apertura della strada transhimalayana che dagli anni Novanta del secolo scorso collega Leh, capoluogo e unica “città” del Piccolo Tibet, a Manali, centro turistico dell’Himachal Pradesh indiano.
Spiriti d’alta quota
Oltre che ai suoi scenari, che a volte appaiono perfino irreali, il mio interesse per questo Paese è legato alle fascinazioni degli antichissimi riti buddisti i quali, ancora oggi, vengono celebrati nei vari monasteri seguendo calendari rigorosamente definiti dai cicli della luna e degli astri. I “gustor”, come vengono chiamati in lingua locale questi eventi, coinvolgono tutta la popolazione, che in queste occasioni lascia i villaggi e raggiunge i luoghi di culto dove i Lama si preparano a queste celebrazioni per lungo tempo, con pratiche di meditazione, consacrazioni di oggetti e cerimonie. Scopo di questi complessi rituali è invocare l’aiuto di Bodhisattva e altre divinità di protezione, al fine di rigenerare la purezza del luogo e liberare la valle da ogni negatività, esorcizzando persone, animali e raccolti dagli influssi dei potenti demoni himalayani. Le danze “Cham” rappresentano diversi temi e sono eseguite da monaci travestiti con sgargianti costumi tradizionali e maschere che raffigurano animali, demoni e yogi delle montagne, intonando mantra sacri al suono di cimbali, tamburi e trombe di ottone. Uno spettacolo di atmosfere e colori che ha pochi altri confronti nel resto del mondo, e rimarrà indelebile nella memoria.
Un’Avventura in Ladakh con Michele Dalla Palma e Nikon School Travel
Quest’anno c’è la possibilità, evento abbastanza raro, di partecipare a ben due festival religiosi, diversi tra loro: a Phyang si potrà vivere l’emozione dei balli e maschere Cham, mentre sul lago Tso-Moriri arriveranno i pastori nomadi con le loro mandrie per far benedire gli animali al monastero di Korzok. Un’occasione irripetibile per riempirsi occhi e anima delle atmosfere magiche di questo universo nascosto tra le montagne dell’Himalaya. Da Leh, con i nostri veicoli fuoristrada percorreremo l’alta Valle dell’Indo, alla scoperta di alcuni dei più suggestivi monasteri della cultura e religione buddista, in uno scenario straordinario tra vette himalayane che superano i 6000 metri, verdi oasi, dune di sabbia. Visiteremo alcuni centri del culto buddista, Stok, Shey, Tikse, Phyang, Hemis, Takthok, Stakhna. Proseguiremo quindi per per Alchi, il più antico monastero della Valle dell’Indo, e Lamajuru, arroccato tra montagne lunari; a Phyang assisteremo al “Tserup”, evento religioso buddista con danze e maschere rituali. Il viaggio proseguirà, tornando verso est, fino alle magiche atmosfere del lago Tsomoriri, dove potremo avvicinare i pastori nomadi che vivono, liberi, in quegli altipiani ancora contesi tra Cina e India, e partecipare al loro “Gustor”. Prima di rientrare a Leh, ci inoltreremo nella selvaggia e semisconosciuta valle che porta al lago Pagong, sul confine cinese, dove vivono ancora allo stato brado grandi mandrie di yak dei clan nomadi della zona.
Dal 6 al 20 luglio 2018 – 10 posti disponibili – chiusura iscrizioni 20 maggio.
Tutte le informazioni e dettagli di questa emozionante avventura si possono trovare cliccando https://www.nikonschool.it/travel/travel-ladakh.php, o contattando direttamente Michele Dalla Palma / info@micheledallapalma.it – www.micheledallapalma.it – tel. 328 39 31 115.
Testo/foto Michele Dalla Palma