“Bologna – Sera del 20 ottobre 1786. Ho passato tutta questa bella giornata all’aria aperta. Mi avvicino appena alle montagne e già mi sento nuovamente attratto dalla mineralogia. Comincio a credere di essere come Anteo che si sentiva tanto più fortificato quanto più si poneva a contatto con la Terra, sua madre. Mi son recato a cavallo a Paderno ove trovasi lo spato pesante di Bologna, col quale ho preparato delle piccole focacce che, essendo calcinate, sono luminose nell’oscurità se prima sono state esposte alla luce. Qui, bene e brevemente, le chiamano fosfori….Trovai copiosamente il desiderato spato pesante…I pezzi, grandi e piccoli, da me trovati si avvicinano, imperfettamente, alla figura di un uovo…Il campione più pesante che trovai, pesa 17 piombi da scandaglio di mezz’oncia…
Da “Viaggio in Italia” di W. Goethe
Sembra incredibile come una semplice pietra possa aver attratto tanti personaggi, venuti anche da lontano, come Wolfgang Goethe il quale, trovandosi a passare da Bologna, per raggiungere alla fine la Sicilia, conoscesse la fama di un minerale da decenni diventato molto ricercato dagli alchimisti di mezza Europa, e che si trovava esclusivamente in mezzo a scoscesi e scivolosi calanchi situati ad alcuni chilometri dalla città. Per raggiungere la località di Paderno, sostando presso l’antica chiesa omonima e la relativa taverna, lo scrittore tedesco era partito a cavallo dalla locanda Al Pellegrino nei pressi della Porta Santo Stefano. Non molto dopo aveva cominciato a salire lungo un’ antica strada e attraverso boschi, per raggiungere dopo almeno una decina di chilometri la zona situata presso le sorgenti del piccolo Rio Strione, un torrentello che sfocia a Rastignano nel fiume Savena. Ma la quasi incredibile storia di questa pietra ha inizio ben 184 anni prima che il trentasettenne viaggiatore tedesco la venisse a raccogliere lassù, nei calanchi scoscesi . Nel 1602 viveva a Bologna un calzolaio con la passione dell’ Alchimia.
Qui è necessario brevemente definire che cosa fosse a quei tempi l’Alchimia, una materia tra lo scientifico, il filosofico e la magia, in altre parole era una scienza esoterica. Il termine Alchimia ha un’origine araba e cioè al-kimiya (ovvero arte della pietra filosofale). In realtà quest’ “arte” era nata nel mondo ellenistico egiziano nel I° secolo d.C. In altri termini si proponeva di trasformare i metalli, previa tecniche di manipolazione. Lo scopo era di riuscire a trasmutare questi materiali in oro, oltre anche a elaborare metodi per allungare la vita e cose simili. Gli alchimisti avevano, generalmente, un loro locale destinato a laboratorio attrezzato con alambicchi, beute, bilancie ecc. e con un immancabile forno. Mescolavano insieme diversi composti per cercare di realizzare qualcosa di nuovo, non presente in natura, nè più e né meno come spesso fanno i ragazzini a cui un genitore ha regalato la scatola “Il piccolo chimico”, e quindi operano con i composti senza vere e proprie cognizioni scientifiche, quindi non scevre da rischi. A partire dal medioevo alcuni, che i veri alchimisti definivano ironicamente Bruciatori di carbone, furono coloro che facevano esperimenti, senza porsi troppi problemi filosofici: questi furono gli effettivi precursori della moderna Chimica. Proprio a costoro si deve la creazione di composti oggi a noi noti.
La famosa Pietra Filosofale fu ricercata da tutti, ed alcuni personaggi famosi affermarono addirittura di possederla. Tra questi, nel XVIII° secolo, vi fu Giacomo Casanova, il quale lasciò una lettera in cui spiegava come trasformare l’argento in oro (in realtà come dare all’argento un colore dorato !). Cagliostro (al secolo Giuseppe Balsamo) fu un esperto alchimista, riuscendo (si dice) a trasmutare il piombo in oro, oltre a curare le persone con pozioni magiche e stimolandole a reagire psicologicamente alla malattia. Non meno famoso fu l’ alchimista francese Nicolas Flamel, il quale visse tra il XIV e XV secolo e che credeva di essere sulla strada per raggiungere l’immortalità. Anche Federico Gualdi del secolo XVII° fu un attivo alchimista a Venezia e fu un mercante di minerali. Scrisse “De lapide philosophorum” in cui si comprende il desiderio, ante litteram, di usare metalli imperfetti (rame, piombo, ferro, ecc. ) per trasformarli in oro (metallo perfetto). Questa fantomatica pietra, in conclusione, oltre a servire a trasformare i metalli comuni in oro, simbolo di immortalità, consentiva anche di poter arrivare a realizzare un elisir di lunga vita (in altri termini curare le malattie) ed infine, da cui deriva il termine “filosofale”, per aprire la mente ottenendo la conoscenza di tutto ciò che ci circonda, riuscendo a discernere esattamente il bene dal male. L’alchimista vero, contrariamente a quanto si possa pensare, era un uomo proteso a raggiungere un livello morale altissimo e che aveva perso ogni forma di egoismo. In altri termini cercava di porsi in una posizione al di sopra dei comuni mortali. Oltre all’ alchimia diffusa in Europa, esisteva anche quella cinese, indiana, greco- alessandrina, egiziana e, ovviamente, del mondo islamico.
Tornando alla nostra prodigiosa pietra di Paderno, analizzata sotto l’aspetto puramente mineralogico si tratta di un minerale di Bario rientrante nel gruppo della Celestina, con un elevato peso specifico. I cristalli hanno aspetti divers,i tra cui le varietà fibroso-raggiate. La sua origine è connessa con filoni idrotermali, cioè formatasi per deposizioni in soluzioni acquose, ultimo stadio del consolidamento del magma e con temperature al di sotto dei 374° C. La Barite risulta spesso associata a minerali metalliferi. Quella che si trova a Paderno pare abbia avuto contatti con del rame, molto presente nelle argille appenniniche. Una volta macinata e calcinata si trasforma in Solfuro di Bario. La sua presenza all’interno delle argille scagliose, sotto forma di noduli o arnioni anche di considerevoli dimensioni, rientra in quei meccanismi geomorfologici originatisi quando una parte del fondo marino del bacino Ligure-Provenzale venne spostato verso Nord-Est.
Questa traslazione era stata provocata dal movimento di rotazione, antiorario, della micro zolla sardo-corsa la quale letteralmente “ruspò” verso Nord Est, il fondo di quel mare caoticizzando le diverse formazioni geologiche che lo componevano, Questo avveniva circa 30 milioni di anni fa. Le falde di rocce, provenienti da un bacino oceanico originale (Oceano Tetide), erano costituite da basalti del pavimento oceanico metamorfosate (= ofioliti), da diaspri e da potenti materiali di origine sedimentaria. Le impressionanti frane sottomarine successive frantumarono e mescolarono ulteriormente le varie componenti rocciose e mineralogiche. La Barite era tra queste. Tali coltri (definite Liguridi) furono successivamente ricoperte da nuovi sedimenti (Gessi, Arenarie, ecc.), finchè l’Appennino settentrionale si sollevò definitivamente. L’intensa erosione che ne seguì, accelerata anche dai periodi glaciali, fece riportare in superficie quelle argille caotiche e, con esse, anche i minerali contenuti . Alla Pietra Fosforica Bolognese (varietà tipicamente di Paderno) vennero dati diversi appellativi come Pietra Bolognese, Pietra di Luna, Pietra Luciferina, Spongia Lucis, ecc.
Ma torniamo nel 1602, al nostro calzolaio o ciabattino bolognese Vincenzo Casciarolo (1571 -1624). Questa persona di modeste origini, oltre al lavoro di riparazione di scarpe, aveva la passione per l’alchimia, con cui poteva produrre dei pigmenti. Un giorno avendo recuperato da Paderno dei curiosi noduli fibrosi di barite, li mise in un fornetto (dopo averli preventivamente macinati) insieme a polvere di carbone di legna, albume d’ uovo, gomma adragante (sostanza ricavata dalla pianta di astragalo) e altre sostanze. Dopo un riscaldamento della miscela di almeno tre ore la polvere nera con i cristalli di bario veniva raccolta. Senza sapere che il Solfato di Bario, in queste condizioni, diventa un Solfuro, si accorse con stupore come , se durante la fase di raffreddamento il composto era stato esposto alla luce, una volta messo al buio emetteva una luminosità verde-azzurrognola: aveva scoperto il fenomeno della termoluminescenza, a noi ben noto ma allora sconosciuto. Casciarolo chiamò questa straordinaria roccia “Spongia solis” (Spugna di Sole), in quanto questa pietra assorbiva la luce del sole per riemetterla una volta posta in un ambiente oscuro. Occorre arrivare al 1612 quando Giulio Cesare Lagalla, un medico salernitano, incontrò più volte Galilei, il quale gli mostrò le Pietre lucifere di Bologna. Da ciò prese spunto per pubblicare il primo scritto a riguardo.
Dieci anni dopo Pietro Poterio, medico bolognese, descrisse la preparazione per ottenere la luminescenza. Fu seguito nel 1634 da una pubblicazione di Maiolino Bisaccione e Ovidio Montalbani, i quali proposero di chiamare quella barite “lapis cascialoranus”. Nel 1640 Fortunio Liceti, medico e scienziato, che all’inizio del 1600 aveva studiato a Bologna, entrò in contrasto con Galilei per quanto riguardava la struttura dei cieli. Per il Liceti, infatti, la Luna era una sfera la cui luminosità sarebbe stata generata dal suo interno. A tal riguardo riteneva che la Pietra di Bologna ( Litheophosforus sive de lapide Bononiensis) non fosse altro se non un frammento di Luna, per via della sua incredibile luminescenza. Il misterioso fascino che derivante dalla Pietra fosforica bolognese venne citato ancora una volta da Wolfgang von Goethe nel romanzo epistolare “I dolori del giovane Werther” pubblicato nel 1774, mentre secoli dopo, nel 2016, l’attrice e regista Angelica Zanardi presenterà uno spettacolo con un testo di Sonia Antinori dal titolo “Lo strano caso della pietra fosforica bononiensis” e non sembra una coincidenza che questa persona abiti proprio a Paderno.
Testo/Giuseppe Rivalta – Foto/Giuseppe Rivalta e Google immagini