Quando si vedono gruppi avvolti in corde colorate e addobbate di moschettoni e con eleganti scarpette aderenti mentre si raggiunge l’inizio della propria avventura con spessi scarponi ai piedi e caschetto in testa, subito si comprende che serve riempire la borraccia con una buona dose di spirito di contraddizione. Molti, infatti, raggiungono l’entroterra finalese per arrampicare, passando la giornata ad accarezzare la montagna che pochi altri sottopongono a endoscopia, visitandone le grotte. Ne ospita 146, si tratta di antri conosciuti e affatto banali che lo rendono uno tra le aree più importanti a livello internazionale per le scoperte paleontologiche e archeologiche.
Che si debba andare controcorrente, per voler scoprire questi spazi, lo suggerisce anche la storia che li lega al “Nuovo Mattino”. Questo gruppo di “scalatori hippies” di origini torinesi in queste montagne organizzava spesso festini, ricreando quel clima irrequieto e creativo con cui col tempo ha poi contaminato il tradizionalismo del mondo alpinistico. Il loro rifiuto convinto dell’iconografia e della “filosofia eroica della vetta a tutti i costi” tuttora risuona nelle cavità della roccia che iniziano a intravedersi lungo il cammino di avvicinamento. Un incoraggiamento a esplorarne le viscere, senza guardare all’altitudine. Chiamata anche “arma” (dalla parola greca “erma”), un tempo la grotta era vista spesso come la dimora di draghi e mostri o, addirittura, del diavolo in persona. Quando se ne trovava una, si doveva esorcizzare, come minimo, oppure interrare e “tappare”, per evitare ogni pericolo. In alternativa, si poteva affermare l’egemonia della nuova religione con la costruzione di una chiesa cristiana proprio sopra l’accesso. Questa è l’opzione che hanno scelto coloro che, secoli fa, hanno trovato la grotta oggi detta di Sant’Antonino, regalando al mondo un luogo estremamente suggestivo.
Sulla bassa cima della montagna sorge, infatti, una cappella dalla pianta trapezoidale, con un bel portale romanico e una piccola cripta. Vi si accede tramite una stretta scalinata, stretta ma non quanto l’apertura che poi svela la presenza al suo interno di una cavità naturale, arricchita da infinite concrezioni di calcare, che si estende verso il basso per alcuni metri. Nella sua morfologia s’intuiscono mensole e scaffali, dove potrebbero essere stati stipati alcuni alimenti. Non ve n’è la certezza, ma è affascinante immaginare la strana convivenza tra questi spazi bui e misteriosi e la luminosità che l’altare, qualche metro sopra, seppur diroccato, vuole ancora evocare.
Accanto alla chiesa che dal X-XI secolo “cova” questa grotta, sorgono le rovine del Castrum Perticae, a sua volta edificato su un preesistente insediamento, risalente addirittura all’Età del Bronzo. Poco lontano, s’incontrano anche quelle del castello bizantino di Sant’Antonino di Perti. Qualche pietra in più, nulla d’integro, ma esattamente ciò basta per far lavorare l’immaginazione mentre si ammira lo stesso paesaggio scelto da chi ci viveva un tempo. Un panorama “da castello fortificato”, costruito per dominare la Valle dell’Aquila a est e quella di Perti a ovest. Con la sua entrata vasta e ampia, la vicina grotta della Pollera mostra come ogni antro approcci, per chi vuole esplorare a modo proprio. Il suo è ingannevole: fa sperare in una comoda accoglienza, per poi incanalarsi nel profondo del pianeta, con cavità dove solo si può intuire la presenza del Rio Montesordo. Si tratta, infatti, di un corso d’acqua interrato che scorre negli stessi spazi in cui, giá a fine Ottocento, sono stati scoperti importanti depositi archeologici. Molti sono ora conservati nel Museo Archeologico del Finale, nel Museo Civico di Archeologia Ligure di Genova Pegli e nel Museo di Antichità di Torino: il loro ritrovamento “racconta” che l’area è stata frequentata dai nostri antenati dalla media Età del Bronzo fino al Neolitico Antico.
Nella grotta della Pollera si lavora di fantasia, non c’è opportunità di sfoggiare un grande spirito da esploratori. Gli speleologi professionisti possono scendere su un pendio fangoso e scivoloso, avventurandosi in svariati cunicoli per circa 500 metri, fino a scendere di 64 metri. Gli altri si fermano nell’atrio, restando affascinati dall’idea di saperla collegata con l’Arma del Buio: le due grotte, assieme, formano un sistema carsico lungo quasi 1,5 km, quello principale del Finalese. La fantasia e la capacità di proiettare su grezze pareti di roccia immagini del passato sono entrambe fondamentali per godere appieno di un’avventura in vere e proprie grotte come quelle che fanno traspirare gli umori dell’entroterra ligure. Nell’Arma do Rian, però, è richiesta anche una certa empatia. Con i compagni di esplorazione, perché le strettoie permettono a malapena di passare uno per volta, sdraiati sulla schiena, guadagnando ogni centimetro “in qualche modo”. E con il pianeta Terra e il bosco che lo ricopre, perché qui si riescono ad accarezzare le sue radici, il suo cervello, le sinapsi che lo rendono rigoglioso e fiero alla luce del sole. Raggiungere l’ultimo antro accessibile della grotta, spegnere la luce frontale e accarezzare la parete ricoperta di delicati, setosi e umidi filamenti palpitanti: queste le istruzioni per un’esperienza indimenticabile. Ancora di più lo può essere se, uscendo, si ha la fortuna di incontrare un pipistrello appollaiato al soffitto e l’accortezza doverosa di non disturbarlo. Piccolo e tremante, è il primo a sperare di non dover entrare in contatto con alcun visitatore, men che meno se armato di una torcia abbagliante e con movenze goffe come chi non è nato e non vive in grotta.
Tutt’altra esperienza è quella offerta da Sant’Eusebio, quando si visita la grotta oggi associata alla sua figura. Quest’antro ogivale si apre dietro a un antico muro e accoglie tutti in un vasto salone (20 m x 9 m). Con un po’ di coraggio e prudenza, anche senza esperienza, si può gironzolare in due parallele gallerie interne, destreggiandosi in un confuso e divertente accumulo di massi caduti dalla volta. Tre metri sotto è nascosto uno strato archeologico dove sono stati ritrovati numerosi resti archeologici anche risalenti al Neolitico. La principale e più affascinante peculiarità che spinge a visitare un’altra grotta nelle vicinanze, quella dell’Edera, è la presenza di un’apertura in alto che la rende una “gigantesca caverna a cielo aperto”. La può visitare anche chi soffre gli spazi chiusi, scegliendo anche se vederla “da su o da giù”. C’è poi chi si cala per vedere questa cavità di forma quasi perfettamente cilindrica dal tetto sfondato, per poi girarsi ad ammirare la valle verdeggiante e il fitto bosco di Monte Sordo. Nei dintorni si sviluppano molti sentieri, comodi e frequentati da chi vuole raggiungere alcune vie multiple dai nomi evocativi come la “Parete Dimenticata”, parete di pietra di Finale, la stessa della Grotta dell’Edera e Grotta Pollera, massima espressione del carsismo del calcare di Finale.
A un primo sguardo, non emerge alcun indizio della meraviglia che questa pietra custodisce. Nel suo anonimo grigio, tra le sue forme lievi e delicate, sono rimasti intrappolati i segreti del fondale marino che un tempo questo territorio rappresentava. Le particolari condizioni paleoambientali della regione (acque calde e poco profonde), tra l’Oligocene e il Miocene, hanno, infatti, permesso la deposizione di formazioni calcaree contenenti numerosi organismi marini. Con il ritiro delle acque e l’innalzamento della piattaforma litoranea, sono poi emersi, regalando a chi oggi passeggia sulla pietra a vista un ricordo prezioso degli esseri viventi del mare miocenico. Chi le studia, vede in queste rocce una grande quantità di fossili con gusci di conchiglie, coralli, alghe e ricci ma anche alcuni pesci, inclusi cetacei e squali di grandi dimensioni come il gigantesco Carcharodon. Gli altri possono fidarsi degli esperti e accarezzarle, sentendo il mare respirarvi dentro. L’ennesimo sforzo di fantasia da compiere, un’altra sensazione regalata da un entroterra a prima vista a volte “zotico”, su cui scorre lo sguardo il più delle volte disinteressato di tutti coloro che transitano sul litorale ligure. Di tutti quelli che corrono in Costa Azzurra o sotto un ombrellone, o al Casinò di Montecarlo o a San Remo. Una terra che svela le proprie cavità a chi solitamente la percorre in superficie, ma dimostra di voler percepire almeno per una volta il suo respiro, i suoi umori, i suoi timori, i sospiri dei suoi resistenti boschi, i fantasmi dei lontani antenati che, senza pile frontali né aspettative, vi hanno vissuto per secoli. Nella loro grande spontaneità custodivano uno spirito di adattamento e un rispetto per la natura che aleggiano, se si fa attenzione, anche tuttora, anche nelle cavità accessibili a tutti.
A svelare e illustrare le meraviglie sotterranee (e non) di questo territorio, Christian Roccati scrittore, guida ed esploratore ( https://www.christian-roccati.com/)
Testo/Marta Abbà – Foto/Alessandra Consonni