E’ la femmina più famosa di Addis Abeba, anzi dell’Etiopia intera, la regina incontrastata del Museo nazionale dove riceve gli ospiti spesso venuti appositamente da tutto il mondo per incontrarla, forte della freschezza dei suoi 18 anni. Non stiamo parlando di un’etiope qualunque, ma di Lucy, l’ominide più famoso in assoluto vissuto ben 3,2 milioni di anni or sono, un Australopithecus afarensis nostro lontanissimo progenitore che si pone a metà strada sulla via evolutiva dell’uomo, iniziata almeno sei milioni di anni fa. Lucy è tanto famosa ed importante per il fatto che fino alla sua scoperta, avvenuta nel 1974 presso Hadar nella regione di Afar bagnata dal fiume Awahs (60 km dalla capitale), gli antropologi si ritrovavano spesso a dover ragionare ed a formulare ipotesi sulla scorta di un dente, di un osso o di una mandibola nel migliore dei casi. Nel caso di Lucy la spedizione internazionale guidata dall’americano Donald Johanson si ritrovò tra le mani 52 frammenti ossei (arti, mandibola, cranio, costole, vertebre e bacino) che permisero di ricostruirne il corpo al 40 %, cosa fino ad allora impensabile. Non solo, ma l’anno successivo (considerato un’epopea d’oro per la paleoantropologia) dagli stessi strati geologici uscirono anche i frammenti ossei appartenenti a tredici altri individui coevi, maschi e femmine di ogni età, che hanno permesso di formulare ipotesi sulla vita di questi nostri lontani predecessori sulla scorta di molteplici dati oggettivi. Tra l’altro 3,2 milioni di anni rappresentano una data fondamentale nella scala evolutiva anche per un’altra ragione: secondo le più recenti teorie è il momento in cui l’ominide, non a caso, inizia ad utilizzare ed a produrre strumenti, litici, lignei ed ossei, che gli cambieranno la vita rendendolo sempre meno soggetto e dipendente dalla natura, incamminato su una via di relativo progresso.
Sulla base di queste scoperte possediamo diverse certezze sugli australopitechi, assai più che nei confronti di altre specie più antiche o recenti. Sappiamo, ad esempio, che mischiava elementi scimmieschi (viso prognato, naso schiacciato, fronte sfuggente e cervello di poco superiore a quello di uno scimpanzé) ed era sicuramente abile nell’arrampicarsi sugli alberi, ad altri decisamente umani, come l’indiscutibile deambulazione eretta attestata dagli arti delle gambe e dalla conformazione del bacino. Quest’ultima costituì una tappa fondamentale nel percorso evolutivo, tanto che molti studiosi riconoscono una stretta connessione tra piede e cervello. Le scimmie antropomorfe hanno scelto di vivere sugli alberi nelle grandi foreste, ricche di risorse alimentari, adattando morfologicamente il loro corpo. Quando, in seguito a mutamenti climatici, le foreste dell’Africa Orientale si sono ridotte ad oasi in mezzo alle savane, gli ominidi per spostarsi dall’una all’altra alla ricerca di cibo sono stati costretti a scendere dagli alberi e ad addentrarsi nell’infida savana, terreno di caccia ideale per le fiere carnivore. Attraversare saltellando a 4 mani/piedi una savana costituiva un’impresa rischiosa. Era molto più prudente camminare in posizione eretta per osservarne i movimenti e le presenze nei terreni circostanti, pronti a scappare su due gambe il più veloci possibile in caso di attacco, con le mani libere da utilizzare per il trasporto della prole o di cose utili, oppure per difendersi usando bastoni e lanciando pietre contro gli avversari. Chi camminava a 4 mani/piedi soccombeva, chi correva eretto sopravviveva, riuscendo a trasmettere i propri geni e migliorando quindi la specie. E così l’ominide, più per forza che per amore, ha imparato a camminare su due gambe, arrivando a conquistare con il tempo tutto il pianeta.
Lucy, che deriva il nome da una famosa canzone dei Beatles allora in voga, era alta (si fa per dire) 107 cm, doveva pesare tra i 30 ed i 40 kg ed aveva una capacità cranica di appena 375-500 cm2; i compagni maschi sicuramente qualcosa di più. Forse, secondo gli attuali canoni estetici, non era proprio una bellezza, ma per quei tempi costituiva almeno un tipo; comunque l’importanza del suo ruolo appare fuori discussione. Non era nemmeno più nel fiore degli anni: non tragga in inganno l’età attribuitagli di 18 anni: spesso i testi non dicono su un’età media di aspettativa di vita di 25 anni, per cui era una donna matura, probabilmente con parecchi figli grandi e piccoli. Sappiamo che viveva in clan familiari allargati passando, nonostante la postura eretta, parecchio tempo sugli alberi, quanto meno per dormire, mangiare, allattare e mettersi al riparo delle fiere. La dentatura denota una dieta onnivora, basata su cibi piuttosto coriacei come vegetali, radici, semi di cereali, frutti, insetti e lucertole. Sappiamo anche che morì di sfinimento sulle rive di una palude e dobbiamo ad un provvidenziale processo di fossilizzazione, dovuto al fango che ne ha inglobato il corpo prima che i carnivori ne disperdessero le ossa, se è giunta più o meno intatta fino a noi. Ma fino a ieri non sapevamo per quale causa fosse deceduta. Ora la pubblicazione di uno studio sulla rivista Nature ci fornisce una risposta anche in tal senso. Secondo i ricercatori dell’Università del Texas, che hanno compiuto vari esami tra cui una tac sui reperti ossei, Lucy sarebbe morta per i gravi traumi e le molteplici fratture riportate all’omero destro, ad un ginocchio, al bacino e ad una costola, cadendo da un’altezza di almeno 12 metri (l’altezza di una casa di 4 piani) ad una velocità di 15 m/s. Molto probabilmente la caduta accidentale da un albero, dove aveva trovato riparo e protezione.
Testo / Giulio Badini