Nel cuore del Mali, a sud del grande delta interno formato dal fiume Niger e dal suo maggior affluente, il Bani, vive in un contesto ambientale assai affascinante una delle più interessanti tra le venti etnie che compongono, come in un caleidoscopio di razze, questa nazione sahelo-sahariana dai confini decisamente bizzarri, tracciati con il righello dai colonialisti nel 1800. Secondo gli etnologi, che li hanno scoperti e studiati a partire dagli anni 30 del secolo scorso, i Dogon costituirebbero anzi, per la loro complessa e per molti versi misteriosa cultura, una delle popolazioni più interessanti dell’Africa occidentale. Non a caso nel 1989 l’Unesco ha inserito il territorio Dogon (i cosiddetti Pays Dogon), assieme alla città di fango di Djennè, alla mitica Timbuctu, terminale meridionale sul Niger delle carovaniere transahariane, e alle tombe degli Askia di Gao, nella lista del Patrimonio dell’Umanità presente in Mali.
Questa etnia, circa 250 mila individui, abita la vasta e arida regione di Bandiagara, un altopiano di roccia di arenaria erosa dagli agenti atmosferici in forme bizzarre, che ad un certo punto precipita improvvisamente sulla pianura sabbiosa sottostante con una scenografica e spettacolare falesia verticale alta diverse centinaia di metri e lunga oltre 150 chilometri. Ignoriamo l’origine di questo popolo e sappiamo soltanto che tra il XIII e XVI secolo colonizzarono questa regione inospitale, forse per sfuggire all’espansionismo islamico degli imperi medievali sorti a quell’epoca sulle sponde del Niger. Al loro arrivo la zona era abitata dai Tellem, popolazione locale descritta come di bassa statura e pelle rossiccia (forse pigmei o boscimani), che abitavano in villaggi di roccia e di fango letteralmente abbarbicati sulla falesia, e seppellivano i loro morti nelle grotte aperte a notevole altezza in verticale assoluta. I Dogon, che continueranno ad abitare i villaggi sulla falesia, collegati tra di loro da sentieri aerei da vertigine, e ad usare le caverne naturali come necropoli (issando però i defunti con funi), sostengono che i Tellem sapessero volare oppure che usassero poteri magici per raggiungere simili altezze. Forse, ma è soltanto un’ipotesi in mancanza di spiegazioni più ragionevoli, parecchi secoli fa il clima più umido poteva favorire la crescita sulla scarpata di piante rampicanti, tali da poter essere usate come scale naturali per individui di peso ridotto. Imparando dai loro predecessori a colonizzare le rupi verticali e a celarsi nelle grotte, i Dogon riuscirono a sottrarsi per secoli alle incursioni degli schiavisti, agli attacchi di altri popoli aggressivi e poi ai colonialisti francesi. Ma, soprattutto, riuscirono a conservare la loro religione animista, che fa perno su una complessa cosmogonia tramandata solo oralmente e attraverso gli iniziati, e le antiche tradizioni, vivendo secondo un complesso sistema sociale ben organizzato, con un’economia di sussistenza basata su agricoltura, allevamento, caccia, artigianato e piccoli commerci di scambio con le popolazioni vicine.
Grazie al loro isolamento, fino al 1930 dei Dogon non si sapeva quasi nulla, risalendo i primi contatti con gli occidentali soltanto all’inizio del secolo. Dal 1931 al 1952 l’etnologo francese Marcel Griaule e l’antropologa Germaine Dieterlen vissero per lunghi periodi nei diversi villaggi per studiare le loro abitudini e gli stili di vita, scoprendovi una visione religiosa e metafisica complessa e assolutamente inimmaginabile per un popolo che, dal punto di vista delle conoscenze tecnologiche, viveva ancora nella protostoria. Ma furono soprattutto le rivelazioni di un vecchio hogon, un capo religioso e spirituale cieco e ottantenne, a svelare le loro incredibili conoscenze scientifiche, in particolare in campo astronomico, che venivano tramandate oralmente da secoli tra una casta di iniziati. La divulgazione delle conoscenze di questo popolo contenute nel libro Dio d’acqua, pubblicato da Griaule nel 1948, determinarono un vero shock per l’Occidente e pongono ancora oggi inquietanti interrogativi tutt’altro che risolti.
I Dogon sono un popolo pacifico e laborioso, che in un territorio arido sono riusciti a creare delle vere oasi di verde con coltivazioni a terrazze e piccole dighe in pietra per la raccolta dell’acqua. Vivono essenzialmente di agricoltura, producendo miglio, sorgo, tabacco, spezie e le migliori cipolle del Mali, e la farina di miglio, dalla quale ricavano anche una diffusa birra locale, è alla base dell’alimentazione. La scelta di vivere in scomodi villaggi arrampicati sulla falesia si lega sicuramente ad un fattore di sicurezza, ma finisce anche per lasciare la sottostante pianura sabbiosa, che si estende fino ai confini con il Burkina Faso, a disposizione della coltivazione, dell’allevamento e della caccia. Vige la poligamia, in funzione delle disponibilità economiche maschili, ma il matrimonio è sempre subordinato al consenso da parte della donna, la quale possiede proprietà personali. Per potersi sposare molti giovani debbono lavorare per parecchio tempo gratuitamente per la famiglia dei futuri suoceri. Essendo il compito primario delle donne quello di generare figli, non è affatto richiesta la verginità, tanto che una precedente maternità viene apprezzata quale garanzia di fecondità. Ne consegue una certa libertà nei costumi sessuali, soprattutto prenuziale. La donna può essere ripudiata anche senza motivo, soprattutto se sterile. La famiglia, formata da persone dello stesse sangue o acquisite per matrimonio, viene rigidamente guidata dal più anziano. L’uomo abita al primo piano della casa in una stanza dove riceve a turno le mogli, ognuna delle quali vive in una propria stanza. Le figlie femmine nubili abitano una stanza comune, mentre i maschi dopo la circoncisione vanno a vivere fino al matrimonio con i loro coetanei a formare l’importante associazione di classe d’età, guidata da un apposito anziano. La circoncisione avviene in età prepuberale con fastose cerimonie e i ragazzi acquistano il diritto di partecipare alla vita sociale e religiosa della comunità. La circoncisione femminile, ufficialmente bandita dal governo, risulta tuttora abbastanza diffusa, ma in privato, nel rispetto di un dettame religioso. Uomini e donne lavorano in ugual misura per produrre di che vivere, ad esempio nei campi. Le donne si dedicano anche alla produzione di terracotta, alla filatura di lana e cotone e alla tinteggiatura, gli uomini invece alla tessitura e alla produzione di oggetti di vimini, di ferro, di legno e di cuoio, dando vita ad un artigianato di elevata qualità come le maschere rituali, le statuette votive e le porte e finestre istoriate di abitazioni e granai.
Capo politico, religioso, spirituale e sociale di ogni comunità è l’hogon, il quale ha anche il compito di tramandare oralmente le tradizioni e il sapere comunitario, che presiede un consiglio di otto anziani ed abita in solitudine a spese del villaggio in un’abitazione utilizzata anche come tempio. Oltre alle abitazioni private in fango e in pietra ed ai caratteristici granai cubici con il tetto conico di paglia, ogni villaggio presenta strutture comuni caratteristiche: il togu-na, una bassa costruzione aperta retta da 8 pali istoriati e sormontata da uno spesso strato di fascine di miglio, che sorge nel punto più alto e serve ad ospitare le riunioni del consiglio, la casa-tempio dell’hogon, gli altari a forma fallica per i sacrifici e numerosi tempietti per i feticci, gli omolo, oltre ad una casa fuori dal villaggio dove vanno a risiedere temporaneamente le donne mestruate, che in quanto impure non debbono contaminare gli altri abitanti. Animisti convinti, i Dogon vedono il mondo come una cosa unica dove convivono in armonia il mondo delle cose, degli animali e degli uomini, dove l’uomo non è il padrone assoluto ma soltanto un elemento che come gli altri partecipa al mondo. Essi hanno costruito una complessa cosmogonia, dove il tutto risulta contenuto in germe in ogni sua parte, con simbolismi e rituali presenti in ogni gesto della loro vita quotidiana. Semplificando al massimo, essi credono nella sopravvivenza dell’anima e in un unico dio, Amma, creatore dell’universo, il quale si accoppiò con la terra generando i Nommo, due gemelli ermafroditi e anfibi, metà uomo e metà pesce, i quali a loro volta generarono otto esseri umani, quattro maschi e quattro femmine, gli antenati dei Dogon, che si sparsero per la terra insegnando le diverse arti. I Nommo circoncisero i loro figli, togliendo ai maschi il prepuzio (cioè la parte femminile) e alle femmine il clitoride, cioè la loro parte maschile. Tutti suonano, cantano e danzano, usando tamburi, flauti e fischietti, e la danza costituisce un’espressione liturgica del sacro, dove si rivive tutta la mitologia con l’uso di maschere, ognuna con un proprio significato. I danzatori si muovono compiendo gesti rituali, noti solo agli iniziati, che raccontano la storia delle proprie origini e il divenire del mondo. La loro vita è costellata di feste e cerimonie, riservate esclusivamente agli uomini, di cui la più importante è il Segui, che si celebra ogni 60 anni per festeggiare la fine e l’inizio di un ciclo di vita, quando la stella Sirio compare in un punto preciso del cielo. Assai complessi anche i riti funebri, capaci di durare una settimana per rievocare le diverse fasi della vita del defunto. La salma viene poi avvolta in stoffe variopinte, portata in processione in posizione eretta attraverso il villaggio e quindi sollevata con funi per essere tumulata in una qualche grotta della falesia. I Dogon sono anche istintivamente ottimi artisti, soprattutto nella scultura; la loro arte si fonda sul simbolismo e dà forma ad idee e concetti cosmologici. Anche stilisticamente risponde ai canoni dell’arte africana: tende cioè alla deformazione delle figure, semplifica i corpi e i volti, sintetizza i volumi. Essa ha influenzato non poco parecchi artisti europei del secolo scorso, quali Picasso, Modigliani, Brancusi e i cubisti, dando origine alla corrente definita “primitivismo” per la grande forza espressiva delle forme semplici e stilizzate e per le proporzioni deformate.
Ma dove veramente i Dogon seducono e stupiscono risiede nell’incredibile bagaglio di conoscenze astronomiche, inimmaginabili in una popolazione ancora oggi priva dei più elementari strumenti scientifici, che si cura con le erbe e gli stregoni. Da sempre i Dogon sanno, ad esempio, che l’universo risulta composto da un’infinità di stelle, che la Luna è un satellite “morto e dissecato”, conoscono la rotazione della Terra attorno al proprio asse in 24 ore e l’orbita attorno al Sole di 365 giorni, sanno che i pianeti ruotano attorno al Sole, che Giove possiede 4 lune principali, che Saturno dispone di anelli concentrici e che la Via Lattea ha una struttura a spirale. Tutti fenomeni che non si possono certo osservare ad occhio nudo. Come fa questo popolo semiprimitivo del Sahel a possedere tali conoscenze scientifiche? Mistero! Ma il mistero, ahinoi, si spinge ben oltre, lasciandoci davvero attoniti. Fin dalle più antiche civiltà – egizi, babilonesi, sumeri – conosciamo Sirio come una delle stelle più luminose del firmamento, in quanto una delle più vicine alla Terra (solo 8,6 anni luce, qualcosa come 82.300 miliardi di chilometri). Anche i Dogon conoscono Sirio, perché si vede ad occhio nudo, e celebrano la loro più importante festa ogni 60 anni, quando essa compare in un punto preciso del cielo, che ovviamente sanno ben prevedere. Come fanno senza strumenti ? Altro mistero. Con i Dogon conviene fare l’abitudine a domande senza risposta, perché sostengono infatti e da sempre anche che Sirio non è una stella singola, ma fa parte di una costellazione, con una seconda stella assai più piccola e decisamente meno luminosa, ma con una massa enormemente superiore “più di tutto il ferro della Terra messo assieme”. E per aggiunta sanno pure che la seconda compie una rotazione attorno alla prima con un’orbita ellittica della durata di 50 anni. Per la scienza astronomica la sorella minore di Sirio, chiamata Sirio B e secondo elemento della costellazione del Cane Maggiore, venne scoperta per deduzione soltanto nel 1862, riconosciuta come nana bianca (vale a dire una delle forme più piccole di stelle percepibili nell’universo, con debole emissione di luce ma con enorme potere gravitazionale dovuta alla composizione di materia degenerata super-densa con gli atomi ultra-compressi) nel 1925 e fotografata soltanto nel 1970, per le difficoltà ad osservarla anche con telescopi potentissimi per la grande quantità di luce emessa dall’astro principale, il quale possiede una massa superiore di 2,35 volte quella del Sole. La luce di Sirio B è infatti 10 mila volte inferiore a quella di Sirio A, compie in effetti attorno ad essa un’orbita ellittica della durata di 49,9 anni e secondo gli astronomi ha una tale massa per cui un metro cubo di superficie potrebbe pesare 20 mila tonnellate; una densità 65 mila volte superiore a quella del Sole. Come facevano i Dogon a saperlo? Ovviamente un ennesimo mistero, ma che non finisce ancora qui perché essi sostengono che esista una terza Sirio, infinitamente più piccola, dove si formano e dove ritornano tutte le anime dei mortali. Nel caso di Sirio C la scienza non può intervenire a confermare, ma neppure a smentire, perché la controversia al riguardo tra gli astronomi risulta ancora aperta: nessuno finora è riuscito a vederla, ma complessi calcoli matematici compiuti nel 1997 ne attesterebbero la presenza. Non ripetetemi ancora l’oziosa domanda di come facciano i Dogon a saperlo, perché la risposta sarebbe sempre la stessa di prima: mistero !!! (ma in questo caso con parecchi punti esclamativi).
Ovviamente tanti interrogativi e tante mancate risposte hanno attirato l’attenzione di numerosi studiosi, e tra questi non potevano mancare gli ufologi. Nel 1976 l’americano Robert Temple pubblicò con ampio successo il libro Il mistero di Sirio, giustificando tali conoscenze con un contatto avvenuto tra Dogon ed extraterrestri sbarcati nella loro terra. Senza tralasciare l’assoluta ascientificità di tale ipotesi, non si può tuttavia ignorare come la tradizione Dogon narri di un’Arca rotonda dei Nommo, proveniente da Sirio B e atterrata in una nuvola di sabbia e con grande fragore, mentre nel cielo era comparsa una nuova stella, che sparì quando l’Arca se ne andò. Da questa sarebbero scesi esseri metà uomo e metà pesci, che per prima cosa cercarono un luogo dove vi fosse acqua per potersi immergere, ma che portarono agli uomini la conoscenza. Ed esseri a forma di pesci venuti dallo spazio sono presenti anche nella mitologia di Babilonesi, Accadi, Sumeri ed Egizi. Se vi capiterà di visitare la terra Dogon, e ne vale sicuramente la pena, di notte scrutate il cielo e cercate Sirio: non si sa mai, e comunque lo spettacolo ne vale certamente la pena.
Testo/Giulio Badini – Foto/Anna Maria Arnesano