Da oltre un decennio la Mongolia si è aperta con passo spedito al turismo, come meta unica e diversa da qualsiasi altra. Unica, ma non per tutti, e cioè solo per grandi viaggiatori, perché i turisti tradizionali rischierebbero di annoiarsi a morte. Le distanze sono enormi, le strade asfaltate quasi non esistono, i monumenti e le forme d’arte, anche se importanti, sono pochi e risalgono a molti secoli fa. Ad incantare un occidentale non più abituato ad ambienti intatti, è piuttosto il paesaggio nel suo insieme, dominato da una luce quasi abbacinante con cieli incredibilmente tersi, steppe infinite di un verde assoluto punteggiate ogni tanto dal bianco delle gher – le tonde case di feltro dei nomadi – mandrie di capre, di pecore, di cammelli e di quel buffo e curioso bovide peloso che è lo yak, per il quale risulta sempre difficile individuare dove sia la testa e dove la coda, o di cavalli lanciati in uno sfrenato galoppo. Un paesaggio che potrebbe sembrare monotono solo perché, per le sue dimensioni smisurate, occorrono giorni e settimane per attraversarlo, ma che in realtà appare estremamente vario in quanto alterna steppe, deserti con catene di dune altissime, altipiani ondulati, montagne alte oltre i 4.000 metri con ghiacciai, foreste, vulcani inattivi, praterie, taighe, fiumi possenti, cascate e ben 4.000 laghi, qualcuno anche salato. Davvero un po’ per tutti i gusti, ma con il denominatore comune di una natura pressoché intatta.
Quello che appare al visitatore, durante i mesi estivi, potrebbe sembrare un angolo di Paradiso. Esiste, e risulta purtroppo prevalente, un altro lato della medaglia tutt’altro che idilliaco. Il clima, infatti, fa della Mongolia una terra inclemente ed inospitale, quasi una maledizione divina. L’estate dura due mesi, primavera ed autunno paiono comete, e l’inverno domina da ottobre a maggio, con la neve in grado di paralizzare tutto: ampie zone restano perennemente ghiacciate, nevica anche nel Gobi, le escursioni termiche stagionali possono arrivare a 70° C e quelle giornaliere a 35: piove poco ma in compenso soffiano forti venti gelidi e Ulaan Baator detiene il poco invidiabile primato di capitale più fredda del mondo. Con simili premesse non meraviglia che l’economia sia basata quasi tutta sulla pastorizia nomade; ma basta un inverno più freddo o più lungo del solito per decimare uomini ed animali, il cui livello di vita rasenta comunque sempre la soglia di povertà.
Percorrendo le infinite e sconnesse piste mongole la mente ha tempo per divagare ed il pensiero corre inevitabilmente sul figlio più illustre di questa terra, noto anche a quanti non sanno di preciso dove si collochi la Mongolia, in altre parole Gengis Khan (o Chingiz, secondo l’etimologia locale). Nonostante le gesta di questo personaggio straordinario siano narrate in una specie di Odissea asiatica, la sua biografia si presenta costellata da parecchi punti interrogativi e la realtà si mischia spesso al mito. Gengis nasce tra il 1162 e il 1167 nella piana del fiume Onon, nella regione nord-orientale, con il nome di Temujin, figlio del capo di una piccola tribù che lo lascerà orfano a nove anni, ucciso in combattimento dai Tatari (a noi noti come Tartari). Mentre lui nasceva, la Cina era squassata da violente guerre tribali, l’Europa combatteva la VII° Crociata e in Italia la Lega Lombarda sconfiggeva a Legnano l’imperatore tedesco Federico. La vita per il giovane orfano non dovette essere facile, ma dimostrò subito la sua tempra uccidendo a sangue freddo un fratellastro per un pesce ed arrivando poi a sottomettere i Tatari. In breve riuscì ad imporsi come capo supremo su tutti i clan locali e nel 1189 fu eletto Khan, imperatore dei Mongoli.
Si impegna allora in una serie ininterrotta e sempre vittoriose di guerre, dapprima con i confinanti e poi sempre più lontano, tanto che nel 1206 fu proclamato Gengis Khan, sovrano universale, quando il suo impero si estendeva da Pechino fino al Mar Caspio. Muore nel 1227, a circa 60 anni, forse per una caduta da cavallo o forse per il tifo, ed il luogo della sua sepoltura assieme a 40 cavalli ed altrettante vergini rimane avvolto nel mistero. Lascia in eredità una nazione per la prima volta unificata e pacificata, un impero esteso quattro volte quello di Alessandro Magno ed il doppio di quello di Roma (superato poi solo da quello britannico nel XIX° secolo), nonché il miglior esercito che la storia abbia mai conosciuto. Figli, nipoti e pronipoti completarono poi l’opera, sottomettendo tutta la Cina, la Corea ed il Vietnam da una parte, l’est Europa fino a Polonia e Ungheria dall’altra (Vienna e l’Italia furono risparmiate soltanto grazie alla provvidenziale morte del figlio e successore Ogadei), così come dopo la conquista di Persia e Medio Oriente si salvò l’Egitto per la morte dell’altro figlio Hulegu.
L’arma vincente per Temujin fu sicuramente l’esercito, creato in parte dal nulla, dove riuscì ad esprimere il meglio della propria genialità, ricambiato da risultati di conquista straordinari. Cominciò con il valorizzare le doti peculiari dei suoi connazionali, vale a dire il saper cavalcare in maniera impareggiabile (ancora oggi il cavallo rappresenta il principale mezzo di locomozione ed i bambini imparano a montare ancor prima di leggere e scrivere), e l’abilità nel maneggiare l’arco per la caccia (dove ancora oggi risulta consentito scagliare una sola freccia, o si colpisce la preda o niente). Ordinò le truppe su base decimale, completamente autonome, mescolò le varie tribù di provenienza, creò armature idonee: corazze di cuoio leggere e resistenti, un piccolo scudo, arco con tre faretre, una lancia uncinata, scimitarra ed un pugnale alla gamba. Ogni cavaliere aveva 4-5 cavalli, piccoli ma resistentissimi, che gli consentivano di cavalcare ininterrottamente per giorni e giorni, dormendo anche in sella e cibandosi del latte delle giumente e del sangue dei cavalli.
Gengis fondò le sue fortune sull’informazione tempestiva, cosa impensabile ed inusitata a quel tempo: una rete efficientissima di corrieri portava notizie e ordini in ogni angolo dell’impero. Si dimostrò geniale anche nella strategia militare, inventando pure la guerra psicologica, e non lasciando mai nulla al caso. Aveva un corpo suicida, i mungadai, che si avventavano sul nemico per poi retrocedere all’improvviso, creando delle trappole mortali per gli inseguitori. Durante gli assedi impiegava arieti, macchine da guerra e catapulte capaci di lanciare pietre di 50 kg; ma spesso i proiettili erano costituiti da cadaveri infetti (la peste fu introdotta in Europa in questo modo), da bombe costruite con polvere da sparo cinese e da bombe incendiarie di nafta, create con petrolio, zolfo e nitrato di sodio. Era un combattente nato, capace di radere al suolo le città che gli opponevano resistenza, ma anche di risparmiare quelle che si arrendevano spontaneamente. Gengis può essere definito un uomo del suo tempo, ma all’ennesima potenza sia nel bene sia nel male. Di personale ci è stato tramandato che aveva paura dei cani, credeva negli spiriti ed il suo consigliere più influente era uno sciamano. Non conosciamo neppure la sua immagine, poiché le effigi che lo ritraggono sono tutte posteriori e probabili libere interpretazioni. A causa dei Mongoli il XIII° secolo viene ricordato come il più crudele e sanguinoso della storia: un terzo della popolazione dell’Asia fu massacrato in un genocidio senza precedenti, la cui diretta conseguenza fu anche la rovina economica per diverse generazioni. Dopo gli assedi di Nishapur e di Herat si contarono per ciascuna 1,6 milioni di vittime, 1,5 a Merv, 800 mila a Bagdad e dopo la conquista mongola la popolazione cinese scese in mezzo secolo da 100 a 60 milioni. In Asia centrale ed in Medio Oriente distrusse totalmente diverse civiltà e culture, che non furono poi più in grado di riprendersi.
Paradossalmente, per altri versi va invece annoverato tra i principi illuminati. Lui analfabeta creò un codice di leggi che, pur nato in un contesto nomade, si rivelò valido per governare un impero enorme e variegato, e va a lui ascritto il merito di aver reso possibili i primi contatti tra Oriente ed Occidente. Realizzò il sistema postale, vietò l’uso della tortura, compì censimenti ed esentò insegnanti e dotti dal pagare le tasse. Dimostrò rispetto per usi, costumi e tradizioni delle popolazioni sottomesse, così come grande tolleranza religiosa: nella sua capitale Karakorum convivevano pacificamente buddisti, musulmani, cristiani, ebrei ed animisti. Rivelò anche ammirazione e rispetto nei confronti di artisti, letterati ed artigiani, a cui spalancò le porte della sua terra, dando vita ad un piccolo rinascimento mongolo. Karakorum divenne un consistente centro commerciale e culturale, oltrechè politico, dove si poteva trovare di tutto e sentire parlare in ogni lingua, cosmopolita come nessun’altra all’epoca. Qui giunse in ambasceria nel 1245 il frate Giovanni da Pian del Carmine, mandato da papa Innocenzo IV°, e nel 1253 il francescano Guglielmo di Rubruc, inviato dal re di Francia Luigi IX°; la lettura del diario di quest’ultimo, ospite del Gran Khan Ogodei, non appare meno istruttiva ed intrigante de Il Milione di Marco Polo, il quale arrivò soltanto nel 1274 alla corte del nipote Kublai Khan nella nuova capitale imperiale trasferita a Pechino.
Kublai cessò la conquista e si dedicò invece a consolidare i territori, perché – come gli disse un saggio cinese – un impero conquistato a cavallo non può essere governato in sella: furono costruite strade, favorita l’economia ed i commerci, inventata la carta moneta. Ma giunti alla quarta generazione, così com’era sorto rapidamente, altrettanto tempestivamente l’impero si dissolse: nel 1368 i Mongoli furono cacciati dalla Cina, in tutta l’Asia i principi locali si ribellarono e ripresero il potere, i clan mongoli cominciarono a combattersi negando ogni autorità centrale, con la conseguenza che la stessa Mongolia fu invasa dai cinesi nel 1382 e Karakorum distrutta. Il sogno di Gengis Khan svanì in meno di due secoli. Stranamente la maggior parte dei cronisti evita di ricordare che Temujin ebbe degli illustri predecessori. Nel III° secolo a.C., infatti, la Mongolia era abitata dal popolo degli Unni, capaci di realizzare uno stato centralizzato difeso da un potente e ben organizzato esercito, con abilissimi cavalieri e spietati guerrieri. Nel 53 a.C. però l’unità si spezzò: ripresero le guerre tribali, la misera economia crollò ed iniziò quindi un’emigrazione armata verso occidente, durata alcuni secoli ma con brutti ricordi del loro passaggio. Il loro ultimo re, il tristemente famoso Attila, arrivò fino in Italia e dominò su un territorio esteso dal Mar Caspio al Mediterraneo e dal Danubio al Baltico, contribuendo non poco alla caduta dell’impero romano.
Percorrendo oggi la Mongolia, le realizzazioni di Gengis Khan appaiono ancora più straordinarie. Come abbia fatto un singolo individuo ad unificare 800 anni fa una nazione grande cinque volte l’Italia, tuttora con notevoli problemi di collegamenti, dove per otto mesi l’anno è quasi impossibile qualsiasi spostamento, costituisce una domanda senza risposta. Come gli sia riuscito di mettere in piedi l’esercito più efficiente nella storia con una popolazione di poche centinaia di migliaia d’individui, che ancora oggi annovera la più bassa densità del pianeta (1,4 per km2), rappresenta un altro mistero. Come può aver fatto a convincere uomini molto individualisti ed asociali per natura, ad abbandonare famiglie e mandrie – loro uniche risorse – per seguirlo in imprese militari comunque rischiose, in terre distanti parecchie migliaia di chilometri e che duravano anni? Dove riuscì a trovare i generali, gli ufficiali, i governatori, gli amministratori, gli esattori e tutto il necessario apparato burocratico centrale e locale per gestire più eserciti in contemporanea e governare un territorio smisurato, partendo da un esiguo popolo di pastori nomadi ed ignoranti? E dove trovò le necessarie risorse finanziarie, in una nazione tra le più povere della terra? Una somma di domande destinate a rimanere senza risposte, che più di mistero sanno di miracoloso e lo iscrivono di diritto nel libro dei grandi di tutti i tempi.
Non a caso i dominatori, cinesi prima e russi poi, hanno sempre cercato di tenere in ombra il ricordo del grande condottiero: la sua effige compare sulle bottiglie di vodka, sui francobolli e sulle banconote, ma non troverete in tutta la Mongolia un solo monumento a lui dedicato. Anche se non dichiarata, da sempre i Mongoli celebrano in suo onore l’11 e 12 luglio la festa del Naadam, che richiama nella capitale e nelle maggiori città un gran numero di visitatori venuti con le loro gher anche da parecchio lontano, incentrata sui tre sport nazionali tradizionali: la lotta maschile, il tiro con l’arco e la corsa di 30 km a cavallo per i bambini. Un’inchiesta internazionale del quotidiano americano Washington Post ha riconosciuto Gengis Khan come l’uomo più rilevante dello scorso millennio: nessuno, infatti, più di lui è riuscito a mettere in contatto tanti popoli così diversi e lontani, creando una vera globalizzazione ante litteram. E concludiamo con una significativa curiosità: a distanza di otto secoli i Mongoli hanno lasciato tracce ben tangibili della loro presenza anche fuori dai confini nazionali. Secondo ricerche compiute dall’Università di Oxford, l’8 % della popolazione dell’ex impero mongolo, pari a qualcosa come diciassette milioni d’individui (quando la madrepatria ne conta 2,5 in tutto) possiede nel proprio dna la variante del cromosoma y, tipico del popolo mongolo. Tanti inconsapevoli discendenti del grande Gengis?
Info: L’operatore K12 propone per i mesi estivi le seguenti partenze:
http://kel12.com/icnc_viaggi/il-festival-delle-aquile/ http://kel12.com/icnc_viaggi/gobi-sconosciuto-in-occasione-del-naadam/, http://kel12.com/icnc_viaggi/gobi-sconosciuto/
Maggiori dettagli: Nationalgeographicexpeditions.it, Kel12.com
Testo/Anna Maria Arnesano – foto/Giulio Badini