Sono tanti i piccoli comuni italiani che meriterebbero d’essere conosciuti, con antiche case attaccate le une alle altre, come scrigni di pietra che nascondono spesso tesori ignorati. Culle di culture, tradizioni e mestieri legati al ritmo delle stagioni, lontani dalle “autostrade del progresso”. Stanno lì, spesso come fantasmatici simulacri di lontani ricordi, in attesa della fine. Com’è stato per Apice vecchia (Bn), la cosiddetta “Pompei del Novecento”, Balestrino (Sv), Gairo vecchio (Nu), Bussana vecchia (Im), Celleno e Monterano (Vt).
Fa piacere e rabbia al tempo stesso, alla luce della gestione “poco oculata” che si è fatta nel tempo del nostro patrimonio culturale, sentire della recente scoperta del Thermopolium a Pompei. Per ripensare poi a quel «La cultura non sfama la gente», che avrebbe detto l’allora ministro Tremonti nel 2010, in risposta alla richiesta di soldi per i Beni culturali, del collega Sandro Bondi. Invece pare che con la Cultura ci si possa mangiare, nonostante il drastico cambio di weltanschauung – come avrebbe detto il sociologo Max Weber – imposto da questa pandemia. Sono tante le organizzazioni no profit che hanno in gestione pezzi del nostro passato, da reinserire nell’agenda quotidiana del Paese, anche come eredità per le future generazioni. Associazioni che operano per la tutela e valorizzazione del patrimonio artistico, storico e culturale, come ‘Le Colonne Arte Antica e Contemporanea’, nata nel 2012, che opera con professionalità a Brindisi e Provincia.
Curatrice della ‘Collezione Archeologica Salvatore Faldetta’, nella Palazzina del Belvedere sul lungomare di Brindisi, quest’associazione di giovani esperti della materia, ha avuto in affidamento dal Comune, anche il Castello Alfonsino (XVI sec.), all’imbocco del porto esterno. Ma un altro antico castello è stato affidato a loro: quello Dentice di Frasso, a Carovigno.
Anche questo paese del brindisino è cresciuto sulle stratificazioni del passato, dai primi insediamenti messapici ai tempi nostri. E lo si può notare specie nel borgo medievale, quel rione Terra che lo scorso luglio ha visto sfilare per i suoi vicoli, la nuova collezione della campagna autunno-inverno di Dolce & Gabbana. Dentro quelle mura antiche, le case bianche di calce e le strette vie sono permeate da una cultura intrisa di usanze e tradizioni, sapori e saperi. Su tutto svetta quel castello ricco di storia e di storie.
Per qualche anziano è rimasto la “Casa del Conte” anche se da decenni è cosa pubblica e, dal 2014, è il bene monumentale più prezioso di Carovigno e il suo cuore culturale. In carico al Comune, è gestito dall’Associazione, che organizza visite guidate, ricevimenti, manifestazioni, mostre, laboratori didattici e creativi per le scuole: sull’araldica, tessitura, ricerca archeologica e architettura antica.
Il castello di Carovigno non ha lo stesso stile di quello di Chambord, nella Loira, con torri e torrette; e non è arroccato su un alto cucuzzolo come il castello di Trakoscan, in Croazia, che potrebbe richiamare il tetro maniero di Grimilde, la regina cattiva del film d’animazione della Disney, ‘Biancaneve e i sette nani’. Ma dall’alto di quel colle di 171 metri slm, ai margini delle Murge meridionali, dalle sue mura si domina la Valle d’Itria fino al mare Adriatico, con le sue torri costiere d’avvistamento.
È uno degli oltre trenta castelli della Puglia Imperiale, ben rappresentata da quella “bomboniera architettonica” che si chiama Castel del Monte, nelle Murge occidentali; oppure come l’affascinante Castello de’ Monti, a Corigliano d’Otranto, che ci dà il senso della fortezza, ma aggraziato con ricchi decori barocchi. In quello di Carovigno, l’attenzione del visitatore si focalizza sulle forme particolari di una struttura rimaneggiata nel tempo, evidenziate dalle fantasie legate alla minimalità che aleggia negli spazi interni, rimasti in gran parte spogli di arredi, mobili e suppellettili. Ma principalmente per quello che hanno rappresentato nella loro storia d’amore, per il conte Alfredo Dentice e la moglie, Elisabetta Von Schlippenbach, ultimi veri residenti della magione. La fortezza, eretta nel XII secolo in stile normanno-pugliese probabilmente su un preesistente sito messapico, nacque con una prima torre quadrata, alla quale si aggiunsero secoli dopo le due angioine (rotonde), orientate verso est e nord, che formano i vertici di un “triangolo equilatero” quasi perfetto. Con l’introduzione delle armi da fuoco, quest’ultima prese la forma di una prua di nave (o a mandorla) verso l’esterno, per deviare i colpi di cannone. È da questa che il 17 agosto partono i fuochi d’artificio in occasione della festa della ‘Madonna dell’Uragano’.
Un castello che ha conosciuto molti proprietari e subito grandi trasformazioni, fino a diventare un’importante residenza gentilizia già prima del XVII secolo. La lunga teoria di casate nobiliari che vi sono transitate, si cristallizza nel 1792, quando i coniugi napoletani Luigi Dentice dei principi di Frasso e la contessa Marianna Serra, acquistarono il feudo con annessi castelli di San Vito dei Normanni, Serranova e Carovigno. Quest’ultimo fu poi donato al figlio secondogenito Alfredo, ma era in grave stato di abbandono. Quando nel 1905 sposò Elisabetta (Elsa) Gräfin von Schlippenbach, di un anno maggiore di lui, decisero che sarebbe stata la loro residenza, poi occupata dal 1920. Nel 1909 incaricarono della ristrutturazione Gaetano Marschiczek, noto ingegnere pugliese e tecnico del Genio Civile di Lecce, che realizzò ex novo ambienti finestrati, le scuderie (poi garage) e i magazzini. Locali, questi ultimi, oggi sede della Biblioteca Comunale intitolata a Salvatore Morelli, deputato del Regno d’Italia, liberale mazziniano e sostenitore dei diritti delle donne, che ha dato il nome anche al Parco comunale (già del castello).
La visita a questa “dimora nobiliare” inizia dal cancello accanto a Porta Ostuni; ma prima di entrare nel cortile, va ricordata la piccola chiesa di S. Anna, sulla sinistra, che per molto tempo fu la cappella del castello. Collegata da un passaggio sull’arco della porta, oggi chiuso, vi si accedeva dalla loggia terrazzata del primo piano decorata con grandi archi, accanto alla biblioteca tra le mura della torre normanna.
All’interno, sull’arco del portone principale, c’è il blasone in pietra del casato Dentice di Frasso e sotto lo scudo, lungo il nastro sinuoso dalle code bifide, la scritta ‘Noli me tangere’ (non mi toccare), che abbiamo trovato anche in altri castelli, ma che qui, probabilmente, era un monito per chi avesse voluto influenzare il loro amore. A destra una splendida balconata in pietra calcarea, sostenuta da 18 mensole finemente lavorate; fu aggiunta come elemento decorativo nel XVIII secolo e vi si accede anche da una scalinata d’angolo che costeggia la torre lanceolata. Di fronte, una pianta di kenzia ormai ultracentenaria, messa a dimora dalla stessa contessa. Da un piccolo cortile interno si accede sia alle “segrete” che ai piani superiori. Le prime sono cunicoli stretti e bassi, con locali scavati nella roccia, che scendono di circa 5 metri sotto il livello stradale. Nati probabilmente come prigioni, divennero in seguito depositi per olio e vino, nevaio e magazzini. Nel piano seminterrato c’era anche un laboratorio di falegnameria e un lanificio-scuola per la tessitura e produzione di filati in lana e seta. La storia della scuola-laboratorio prese avvio da un’intuizione della contessa Elisabetta nel 1926. L’obiettivo era di creare stoffe innovative e di pregio rispetto a quelle conosciute, usate dalla nobiltà. Ma principalmente, di attivare un circuito economico virtuoso, che coinvolgesse donne, uomini e giovani del territorio, pastori, contadini e giardinieri. A dirigere la scuola, il reverendo don Michele Russo.
Studiando i primi telai acquistati, se ne realizzarono altri, e la produzione di stoffe di Carovigno divenne nota anche nel mondo. Ma con la morte di Elisabetta a 66 anni, in un incidente d’auto a Udine nel 1938, iniziò il declino dell’attività, che terminò del tutto con la vendita del maniero allo Stato. Diventando prima sede dell’Onmi (Opera nazionale maternità e infanzia) e poi adattato a scuola media fino a inizio 1985, subì pesanti modifiche architettoniche all’interno.
Al primo piano c’è il magnifico salone di rappresentanza con lo stemma a colori del casato sul pavimento. Qui venivano ricevuti gli illustri ospiti della nobile coppia, tra i quali ci fu, nel gennaio 1934, anche Guglielmo Marconi, a cui fu poi dedicato il viale principale del parco. Lo stesso stemma, ma in pietra, che troneggia sul grande camino centrale sulla parete opposta all’entrata, decorato con figure allegoriche. Di fianco le due porte d’accesso alla zona notte, sormontate dai ritratti di Alfredo (sulla destra) ed Elisabetta (a sinistra). Sui montanti in pietra, le scritte in latino: ‘Deseruisse iuvat mare’ e ‘Nulla palma sine pugna’.
Nella prima il marito dichiarava di non pentirsi di aver lasciato il mare (per sposarla); lei invece affermava, che non c’è vittoria senza la battaglia, evidentemente riferendosi al suo passato austriaco. Immagini di due personaggi d’altri tempi, di cui si parlò anche nel settimanale ‘La Tribuna Illustrata’ del 20 aprile 1923. Una coppia che solo la morte ha potuto separare e che ci ha lasciato in eredità, anche una storia d’amore legata alla rinascita della loro terra.
Nella parte posteriore del Castello c’è quello che rimane dell’antico fossato, un tempo in continuità con il la vasta area a verde del prezioso parco di pertinenza voluto dalla Contessa, prendendo spunto da altri modelli presenti nelle regge europee e, in particolare, a quello del Castello di Miramare, a Trieste, città dove aveva abitato. Vi si accede da una piccola galleria che sottopassa via Regina Margherita, ma percorrendo via delle Rimembranze, che lo costeggia lato nordovest, si può comprenderne appena l’originaria vastità, dato che in parte è stato urbanizzato nel secolo scorso e poi diviso in due parti da via Santa Sabina: il Parco provinciale, in basso di fronte al cimitero e il Parco Comunale Salvatore Morelli (la Villa Comunale), confinante con il castello. Ma oggi, anche se qualcosa di allora è sopravvissuto al tempo e agli uomini, rimane difficile comprenderne la portata della sua originaria bellezza, messa in opera dal giardiniere leccese, Francesco Ingrosso. Con calessi cavalli e carrozze che transitavano nei larghi viali, il giardino all’italiana, l’orto botanico contenente anche le piante di gelso per il baco da seta, il campo da tennis, fontane e prati con aiuole fiorite a formare il grande stemma del casato. Però rimane pur sempre un bene comune di cui vanno fieri i cittadini.
Alfredo Dentice dei principi di Frasso, nacque a Napoli il 27 gennaio 1873 e, dopo l’Accademia navale di Livorno, intraprese la carriera militare nella Marina Reale fino al grado di ammiraglio. Eroe della Prima Guerra mondiale, fu insignito di varie onorificenze e decorazioni. Dopo il congedo ricoperse ruoli di primo piano in diverse aziende, e dal 1929 al 1934 fu senatore Regno d’Italia. Due anni dopo la scomparsa della moglie, nel pomeriggio del 10 febbraio 1940 morì in un incidente aereo presso Aiello Calabro (Cs). Il volo di linea, della compagnia Ala Littoria (antenata di Alitalia), era partito da Brindisi diretto a Roma, ma capitò in una violenta turbolenza, che probabilmente ne causò la caduta. Un anno dopo la compagnia effettuò l’ultimo volo e nel 1945 concluse l’attività.
Alfredo Dentice e la moglie sono stati tumulati nel cimitero monumentale di Carovigno, in due tombe a cupa (o a botte) affiancate, fatte realizzare dal loro comune amico, l’ammiraglio Aslan Granafei. Alle spalle un grande Crocifisso a mosaico, come ad abbracciarli. La loro fu un’amicizia nata tra le bombe, perché Aslan Granafei e Alfredo Dentice di Frasso, nobili e ufficiali di marina, furono anche ambedue al comando della difesa marittima di Monfalcone.
Delle sofferenze nel passato di Elisabetta, si è saputo solo dopo il ritrovamento di un diario di memorie, racchiuso in una cartella in seta verde bordata e legata con un cordoncino, forse prodotta nel loro laboratorio tessile. In esso, quel ricordo del matrimonio forzato in gioventù si annulla dopo l’incontro con Alfredo, vergato in una frase che lascia capire tutto il suo essere finalmente liberato: «Da quando il tuo sguardo si posò negli occhi miei, da quando il tuo cuore palpitò sul mio, conosco la delizia del vero amore».
Perché Elisabetta, donna reietta in patria dopo il divorzio da quel marito molto più anziano, impostole dalla nobile famiglia prima dei 17 anni, nei dieci anni che seguirono quell’unione conobbe solo un momento di gioia: la nascita del figlio Paul, che una volta maggiorenne si trasferì anche lui a Carovigno.
Nelle pagine del diario si racconta dello scalpore negli ambienti cattolici e benpensanti di corte per quell’inaccettabile divorzio. Del disonore che cadde sulla sua famiglia molto cattolica e della cacciata da casa, della conseguente povertà e dell’incontro con l’amore della sua vita. Le sue memorie sono custodite nell’Archivio privato Dentice di Frasso, nell’omonimo castello di San Vito dei Normanni, in via Crispi 6.
Info: Associazione le Colonne-Collezione Archeologica Faldetta; Castello Dentice di Frasso
Testo-foto/Maurizio Ceccaioni