Il fuoristrada corre veloce sul fondo del lago salato di Tuzbair: l’acqua è evaporata e resta solo un terriccio arido e duro, ideale per sfrecciare in queste immense distese. Nubi nere, però, si affacciano minacciose all’orizzonte: non promettono nulla di buono. Un temporale con le sue copiose piogge potrebbe rendere impraticabile quella pista e bloccare il mezzo, anche quello più potente. Acqua e sale creerebbero infatti un effetto sabbie mobili, in cui la jeep rischierebbe di restare impantanata e non uscire più. Dallo specchietto retrovisore vedo il viso teso e preoccupato del driver. Un volto corrucciato che fa a pugni col mio stato d’animo: io mi sento bene. Davanti a me scorrono le immagini del paesaggio che mi circonda: a destra rocce calcaree bianchissime, dalle forme sinuose e dolci; a sinistra l’immensità del lago salato. Sopra un cielo che degrada dal nero cupo all’azzurro abbagliante. Davanti e dietro il nulla. Sono nel cuore del deserto del Mangystau, nella parte sud occidentale del Kazakhstan.
Un’area ampia poco più di 400 chilometri quadrati, praticamente disabitata se si esclude il capoluogo della regione, la città di Aktau, agglomerato di palazzoni tutti uguali tra loro, in pieno stile sovietico. Lì le vie non hanno nomi: se si escludono i due viali principali – viale dell’Indipendenza e via Nursultan Nazarbaev in onore del Presidente – le localizzazioni vengono fatte per numeri: il numero del quartiere, quello del palazzo e per ultimo quello dell’appartamento. Tre cifre per formare un indirizzo. Eppure Aktau è – o almeno ambirebbe ad essere – una rinomata località turistica. Qualcuno l’ha definita la Rimini del mar Caspio. E in effetti le strutture ci sono: il lungomare pullula di alberghi, alcuni anche lussuosi, c’è una bella banchina fronte mare che si conclude con il monumento all’Indipendenza. Furono i depositi di uranio ed i giacimenti petroliferi della zona ad attirare i sovietici, i quali nel 1958 cominciarono a tracciare la pianta di una città modello, con vie ampie e diritte sulla riva dell’azzurro Mar Caspio. Le presenze di stranieri sono legate più all’esistenza di pozzi petroliferi, che non alla bellezza della località. Anche l’Eni qui è attiva e non risulta difficile sentire parlare italiano.
Ma bisogna uscire dalla città per cogliere la vera perla segreta di questo luogo. Dici deserto ed il pensiero corre a distese di sabbia senza fine, a dune rosse intervallate da oasi con palme ed acqua. Il Mangystau non ha niente di tutto questo: è forse una delle aree più inospitali al mondo e se il Kazakhstan, paese immenso esteso attraverso tre fusi orari, ha una delle più basse densità di popolazione in assoluto, qui la presenza umana risulta veramente una rarità. Ed in effetti questi luoghi nei secoli scorsi furono scelti da asceti musulmani: a darne testimonianza sono le tante piccole moschee sotterranee, come quelle di Sultan Epe, fatta risalire al periodo tra il IX e XII, e di Shakpak Ata (con annessa necropoli da oltre 200 tombe), o altre incuneate nella roccia. Accanto a questi piccoli eremi risulta facile trovare i resti di cimiteri, con tombe che vanno dall’antichità ai giorni nostri, dove non è insolito vedere lapidi con scolpiti l’uno accanto all’altro simboli della religione islamica (la mezzaluna) e falce e martello, segno della presenza sovietica. Un’influenza quest’ultima ancora forte in tutto il Kazakhstan, ed anche in questa parte del paese in particolare, all’apparenza isolata da tutto. A colpire figura la discrepanza tra le piccole moschee, intatte e spesso ancora luogo di preghiera, ed i cimiteri su cui sembra essersi abbattuto un tentativo di distruzione non perfettamente riuscito, e dalle motivazioni ancora ignote.
Se appare difficile incontrare altri esseri umani, più sovente capita di vedere cavalli e dromedari: anche loro solitari, lenti quasi fossero in contemplazione della strepitosa bellezza circostante. Immersi tutti come sono in una steppa che quando si dirada lascia spazio ad una roccia bianchissima di gesso: si può quasi avere la sensazione di trovarsi in Turchia, tra i camini di fata della Cappadocia, o le rocce delle sorgenti termali di Pamukkale. Ma qui invece siamo nel cuore più sperduto dell’Asia centrale, immersi in una delle zone più belle del Mangystau: la Valle di Bozhira. La luce del mattino rende forse ancora più bianche le formazioni calcaree che popolano quell’area e l’effetto sembra quasi abbagliante.
Siamo a maggio e le temperature già a metà mattina si presentano elevate: all’ora di pranzo si raggiungono i 40 °C, e cerco riparo all’ombra del fuoristrada. Guardo come ipnotizzata le abili mani della cuoca russa, la quale mi accompagna alla scoperta di questo angolo di mondo: veloce e sicura prepara un gustoso piatto a base di pollo e patate, che qui mi sembrano particolarmente buone. La cucina tipica kazaka predilige invece la carne di cavallo, di pecora e cammello, e le bevande a base di latte fermentato. Gusti decisi che ritroviamo anche nel piatto più caratteristico del paese: i ravioli di carne di agnello tritata, speziata ed aromatizzata con pepe nero e poi cotti al vapore. Le reminiscenze del periodo sotto la dominazione russa sono tante, e la nostalgia verso il periodo sovietico non viene tenuta nascosta: molti sono i russi che hanno scelto di rimanere in Kazakhstan anche dopo la proclamazione dell’ indipendenza da Mosca. La lingua, le usanze tanto in voga nell’ex impero, la dipendenza per certi prodotti dalla vecchia madre patria, appaiono reali. E tutto questo benché il Paese abbia uno dei sottosuoli più ricchi del continente asiatico: gas, petrolio, minerali. Alla loro abbondanza fa da contrappeso la scarsa disponibilità di acqua di queste zone, e c’è da scommetterci che quella per le risorse idriche finirà per essere la grande partita che dovrà giocarsi questa remota zona del mondo.
Lasciate le bianche formazioni del frastagliato altipiano di Ustyurt, raggiungo il canyon di Zarmish: sembra una tavolozza multicolore. A produrre questo sorprendente effetto sono le argille colorate componenti la formazione rocciosa, assai ricche di minerali. Dopo notti in tenda igloo adesso è arrivato il momento di provare la yurta, la tipica e coloratissima tenda dei nomadi dell’Asia centrale. Si presenta spaziosa e molto confortevole e il riposo risulta dolce. Ma le sorprese non sono finite: dopo il trekking tra le rocce variopinte, ecco quello tra pareti bianche di gesso. A scavare questo passaggio è stata l’erosione dell’acqua, di quel mar Caspio che oggi sembra tanto lontano, ma che in passato lambiva queste terre. Qui incontro anche un serpente: lui ha paura di me e io non sono da meno, perciò alla fine ci ignoriamo vicendevolmente e ognuno prosegue per la propria strada. Lungo la via di ritorno all’accampamento di yurte mi imbatto in Sherkala, “Leone di Roccia”, uno straordinario sperone di roccia calcarea alto più di 300 metri svettante misteriosamente dal piatto deserto, il quale da alcune angolazioni assomiglia ad un’enorme yurta. Poco distante si trova la grotta-santuario di Temir Abdal Ata, di fronte alla quale sorgono qua e là le pietre scolpite di una suggestiva necropoli abbandonata, famoso luogo di meditazione di mistici asceti islamici.
Concludo il mio tour nel Mangystau con la “Valle delle Sfere”, una vasta zona cosparsa di centinaia di gigantesche palle di pietra, alcune delle quali con un diametro superiore ai due metri. Appare un’area ancora praticamente inesplorata, di cui si ignorano le modalità di formazione di questi massi tondi. Sono in corso studi approfonditi per capire il fenomeno capace di generare simili effetti. Ma il bello di questi luoghi sta forse anche proprio e soprattutto in questo: essere ancora ignoti e per questo in grado di farti sentire pioniere nelle sperdute steppe. Sto salendo sull’aereo, ma mi manca già il Mangystau. Mi manca il profumo del timo selvatico che mi ha accompagnata per tutto il viaggio. Vorrei risentire sulla pelle il vento caldo ma vellutato di quel deserto. Essere abbagliata dal sole riflesso nelle acque del lago salato. Essere inondata dalla luce intensa che mi svegliava all’alba. Mi piacerebbe ritrovare quel senso di libertà e leggerezza che solo i grandi spazi vuoti riescono a trasmettere. Desidererei riprovare l’emozione di sentirmi un tutt’uno con quel luogo immenso: io, chiusa nella mia tendina, all’apparenza isolata e invece parte di una magica armonia.