Anche solo raffigurato sull’etichetta di un contenitore di carne in scatola, il Monte Kenya affascina. È successo proprio così a Felice Benuzzi, l’italiano che c’è salito assieme a due compagni di prigionia, ponendovi anche la bandiera italiana, grande smacco agli Inglesi che in quel momento dominavano il territorio. Siamo nel 1943 e i tre soldati-alpinisti evadono da un campo di concentramento britannico per raggiungere la seconda vetta più alta dell’Africa, per poi costituirsi, ben consapevoli di non poter ambire a una vera e propria fuga. È chiaramente uno stimolo utopico che li spinge a organizzare tale spedizione, il desiderio di sfuggire al tedio e all’abbrutimento della prigionia, a un tempo divenuto senza senso, scandito solo dagli obblighi della burocrazia concentrazionaria.
Resta un’impresa affascinante che avvolge una cima di narrazione storica e le regala un significato di libertà ancora oggi prezioso. Non l’unico, però. Le curve sinuosamente decise e verdi del Monte Kenya accolgono anche un’altra declinazione di tale valore, più sanguinosa, più crudele, più combattuta, meno epica ed evocativa da raccontare ma importante da ricordare. Quella che ha segnato la vita dei popoli locali (principalmente Meru, Embu, Kikuyu) che, per opporsi alla dominazione britannica, hanno sfruttato le grotte e le rocce di questa montagna per nascondersi, resistere, sopravvivere. Si chiamano Mau Mau, da Uma! Uma, “Fuori! Fuori!”, il grido che interrompeva le riunioni se il palo segnalava l’arrivo di estranei. Questo movimento militante africano nato negli anni Cinquanta ha visto oltre 11.000 vite sacrificate in nome della libertà, per non contare prigionieri e torturati. Solo dal 2003 i caduti del Kenya Land and Freedom Army (nome ufficiale del gruppo) non sono più considerato terroristi, anzi, sono celebrati nel Mashujaa Day, il giorno degli eroi, ogni 29 ottobre.
Avventurarsi sul Monte Kenya, quindi, oggi, è, e deve essere un viaggio di libertà, con un bagaglio di doverosa memoria ma, soprattutto, una prospettiva futura a cui guardare scaldando i muscoli e alzando gli occhi al cielo. Tre sono i picchi cui ambire, “resti” di un vulcano eruttato per l’ultima volta milioni di anni fa: Batian (5.199 m), Nelion (5.188 m) e Lenana(4.985 m). A battezzarli così è stato Halford John Mackinder, il geografo che per primo, nel 1899, li ha conquistati durante una spedizione scientifica organizzata in stile militar-coloniale, per dare lustro all’Impero di Sua Maestà britannica. Un inglese sicuramente patriottico, ma che ha avuto la sensibilità di scegliere nomi di capi Masai, lasciando alle sue due fide guide europee i più noti ghiacciai del massiccio, il Ghiacciaio César e il Ghiacciaio Joseph. Si tratta di tre cime molto vicine e differenti l’una dall’altra. Solo una è raggiungibile senza doti alpinistiche, Lenana, la più bassa, per le altre è necessaria attrezzatura ambiziosa se si vogliono “conquistare”. Nulla vieta, anzi si consiglia, di fermarsi ad ammirarle dall’ultimo rifugio, l’Austrian Hut (4.790 m). Una “scatoletta” con qualche camerata con la scritta “no graffiti” e un corridoio cucina, da cui poterne osservare in modo più armonioso e sereno le forme alpine, svettanti e singolari, anche alla luce del tramonto, o dell’alba. Dormire lì una notte è un’esperienza indimenticabile: si sentono le cime come torri che vegliano sui sogni, mentre si respira un forte odore di “carburante da cucina” e si riassaporano le parole scambiate poco prima con gli altri viaggiatori ospiti.
I principali gruppi etnici che vivono intorno al Monte Kenya credono che la montagna sia sacra e da sempre costruiscono le loro case collocando le porte nella sua direzione. Questa tripartita struttura geologica che interrompe le pianure keniote rappresenta il trono di Dio, del loro dio Mwene Nyaga, ed è lì che Gĩkũyũ ( padre della tribù) andava per dialogarci. Da qui il nome locale Mwene Nyaga, tradotto a volte anche come “proprietario degli struzzi”, in kikuyu. Un’interpretazione apparentemente “insensata” e poco adatta a una montagna di tale imponenza, ma che diventa divertente e azzeccata quando si arriva ai piedi del monte e si notano i suoi colori, proprio simili a quelli dell’animale. Bianco e nero, a macchie, nero-vulcano e bianco-neve. Uno spettacolo cromatico che varia con le stagioni e mai si ripete uguale, ma che va in scena solo sopra una certa quota. Sotto, si trova tutt’altro genere di scenario: il trionfo di quella Madre Natura che ha troppo freddo per salire sopra i 3.500 metri.
Dopo aver sorriso al pensiero dello struzzo di neve e rocce, si resta a bocca aperta di fronte al panorama preistorico offerto agli occhi attorno ai 3000 metri. Morbidamente sdraiata, qui, il Monte Kenya diventa il luogo, dove, far west e Alpi si compenetrano con impensabile naturalezza, lasciando la scena a presenze storiche fantasma, prima fra tutti, la “Cousin Itt lobelia”. Il vero nome di questa pianta è Lobelia Telekii, riesce a raggiungere anche i 3 metri di altezza e lo fa con un’unica grande infiorescenza che ricorda il personaggio immaginario della Famiglia Addams. Coreografica e divertente, questa Lobelia condivide i vasti spazi ai piedi delle tre cime con la “collega locale” Lobelia Deckenii Keniensis, una specie gigante, endemica, molto apprezzata dagli uccelli, in particolare dall’uccello del sole dal ciuffo scarlatto e dal chiacchierino alpino. La sua forma non regala accenni cinematografici ma cattura l’attenzione delle menti più scientifiche o, semplicemente, curiose. Nelle rosette, infatti, questa pianta conserva riserve d’acqua che si congelano di notte, proteggendo la gemma centrale e creando minuscoli cubetti di ghiaccio a forma di mezzaluna, quelli all’origine del soprannome di “lobelia gin tonic”.
È una flora interessante e per molti inedita quella che sfila sotto gli occhi di chi si presta a conquistare uno qualsiasi o tutti i picchi del Monte Kenya. Uno spettacolo che prevede anche fiori, come quello a forma di carciofo, bianco o rosaceo, della Protea Caffra Kilimandscharica, o quelli più piccoli del Senecio Keniophytum, un’altra specie endemica. Colori calmi e armonici che lasciando che l’attenzione dei viaggiatori possa essere catturata dall’originalità delle forme. Tra tutte, spicca quella curiosa e certamente “antropocentrica” del Dendrosenecio. Questo sottogenere di Senecio, invecchiando, assume le sembianze di un grande candelabro o di un palo del telefono. Indecisi tra l’una o l’altra interpretazione, facile distrarsi e rischiare di non avvistare l’irace delle rocce. Si prende per una marmotta di taglia extra large, è particolarmente socievole ma non disturba, compare al mattino e al calar del sole con il suo musetto curioso, anche vicino agli accampamenti se ad altitudini inferiori ai 4.200 m. Le guide locali raccontano che questo innocuo animaletto è un vero esempio “di civiltà”: rappresenta un ideale equilibrio strutturale basato sulla regola “l’amico del mio amico è mio amico”, totalmente privo di configurazioni sociali sbilanciate. Pare che questa “mentalità” renda la specie più che mai longeva, nonostante la presenza di predatori in zona, in primis la iena striata. Non la si vede durante il trekking, ma se ne può percepire la presenza trovandone le feci sul percorso, così come accade per la maggior parte degli animali dell’area tra cui le antilopi. Cib è la piccola Dik dik, dal nome onomatopeico che richiama il loro verso quando spaventate, e la più grande Eland, che arriva a pesare anche 300 kg. Scendendo, o salendo, in quel breve tratto di foresta che il trekking concede prima di raggiungere quote sfidanti, si possono scorgere poi alcune scimmie. La più pittoresca è la Colobus monkey con il suo mantello caratteristico bianco e nero, sempre impegnata a saltare tra i fitti alberi, lì dove lo sguardo può cercare anche i tanti uccelli più o meno variopinti che abitano la zona. Alpin chat, streaky seed, sunbird, cisti cola e il bel red wing sterling, uno storno tutto nero, fin quando non apre le ali e sfoggia un meraviglioso interno-ali rosso fuoco.
La varietà naturalistica cadenzata dalla quota che la salita al Monte Kenya propone lascia massima libertà nella scelta del percorso perché si estende su tutto il territorio in modo radiale, senza lasciare spicchi sguarniti di rigogliosa vita. Si possono domandare alle guide locali le diverse opzioni. Fatelo! Perché se si è fortunati, si regala loro l’occasione per sfoderare una cartina letteralmente anni Settanta – “ma nulla è cambiato” assicurano – in cui compaiono le varie “routes”, ricamate tra curve di livello e macchie di vegetazione. Tre sono quelle principali, che soddisfano il 90% di tutti gli escursionisti: la Naro Moru a ovest, la Sirimon a nord-ovest e la Chogoria a sud-est. La più attraente, consigliata e proposta è l’ultima, nel mio caso percorsa con Kailas, tour operator italiano fondato da geologi, in collaborazione con Go to Mount Kenya. Questa route prende il nome dal villaggio nei pressi del cancello da cui si accede al Mount Kenya National Park, si percorre un breve tratto in 4×4 attraverso la foresta fino a raggiungere le Meru Bandas (3000 m) per poi proseguire a piedi… fino alla cima Lenana! E, volendo, anche alle altre. Durante il trekking si può ammirare dall’alto il lago Ellis e uno spettacolare anfiteatro di scogliere noto come “The Temple”, in fondo al quale si trova il lago Michaelson e, all’estremità occidentale, un grande intaglio dove entra il fiume Nithi. Da qui il sentiero continua a salire, fino a Simba Tarn e all’Austrian Hut, ultima affascinante tappa prima della cima Lenana, bella, vicina, emozionante e accogliente. Nell’ultimo tratto c’è una piccola catena che le regala la fama della “ferrata più alta del mondo” ma… non è una ferrata. Necessarie solo prudenza e concentrazione, e la forza di volontà per non incantarsi a guardare il paesaggio prima di aver raggiunto la cima, rischiando imprudenze.
Gli altri percorsi offrono meno varietà di punti di vista sulla montagna durante l’ascesa e le tappe sono più ovvie e scomode. Chi vuole però a tutti i costi ripercorrere il tragitto fatto dal soldato Benuzzi e dai suoi compagni, può cercare di farlo seguendo la Burguret Route. Non è molto frequentata e varia di volta in volta, soprattutto nel primo tratto, dove i tre hanno proceduto “a zig zag”, seguendo l’istinto, in una foresta fitta e popolata di presenze potenzialmente minacciose. Meglio optare per route più segnate, e leggere le loro vicende nel romanzo “Fuga sul Kenya” di cui Felice Benuzzi ha scritto appositamente anche una versione per il pubblico inglese, “No Picnic on Mount Kenya”, diversa in stile, tono e contenuti. Quella italiana, però, edita da Corbaccio, contiene anche i favolosi acquerelli realizzati dall’autore stesso prima e durante la sua avventura. Immagini dal forte potere evocativo, capaci di far percepire quella libertà che andava cercando su una cima unica nel suo genere, quella scintilla di vita che lo ha animato vedendola dalla finestra di una baracca del campo e lo ha stregato, regalandogli emozioni che si possono rivivere in un viaggio di libertà, oggi come ieri necessario, prezioso, consigliato.
Testo e foto/Marta Abbà