Vigna Michelangelo, la prima vigna urbana moderna di Firenze composta fino a ieri da pochi filari, rinnova il suo parco viti e vedrà mettere a dimora settecento nuove piante. Si trova sulla collina che sovrasta l’Arno con una vista che spazia dalla cupola del Brunelleschi ai colli di Fiesole, adiacente al giardino dell’Iris dove è conservato il germoplasma del genere Iris, simbolo di Firenze. I terreni, esposti a nord-est, sono gestiti dall’azienda agricola donne Fittipaldi di Bolgheri, presieduta da Maria Fittipaldi Menarini che, con le quattro figlie Carlotta, Giulia, Serena e Valentina, si è lanciata con convinzione ed entusiasmo in questo progetto.
Nei suoi numerosi spostamenti all’estero Maria si era imbattuta nella vigna del Clos Montmartre, sormontata dalla chiesa del Sacro Cuore a Parigi, poi nelle vigne di Leonardo a Milano, nelle vigne della Tenuta Venissa sull’Isola di Mazzorbo a Venezia e della Villa della Regina a Torino. L’idea di emulare queste particolari colture nel proprio terreno, posto proprio al centro della culla del Rinascimento italiano, è sorta spontanea, così come spontaneo è sorto l’accostamento con Michelangelo Buonarroti, non solo per l’attiguo piazzale Michelangelo ma anche perché questi aveva acquistato una tenuta in Chianti, vicina alla torre Nectar Dei, poi diventata Fattoria Nittardi.“Questa vigna rappresenta anche la mia infanzia – ricorda Maria – quando i primi di settembre, di ritorno dalla villeggiatura, amavo cogliere gli acini e anche alcuni grappoli per la tavola”. Poi, venti anni fa, nella sua residenza di Bolgheri scoprì il fascino del vino. Ed è la, in quel periodo, che nasce l’Azienda Agricola donne Fittipaldi. Da quel periodo, per quel progetto, decide di volere accanto a sé anche le quattro figlie che ancora oggi le sono vicine nel portare avanti l’Azienda. Ed è anche la passione e l’esperienza acquisita in questi anni che l’hanno convinta a far rivivere la vecchia vigna di casa. “In qualche modo –ricorda Maria – voglio dare un segno e un senso di continuità a questa casa, particolarmente amata da mio padre Mario.”
La vigna è vista come elemento in grado di ricomporre l’insieme di patrimonio rurale, storico e paesaggistico tipico di una comunità urbana ancora lontana dall’industrializzazione. Un progetto in grado di esaltare la biodiversità e di contribuire alla sostenibilità urbana. Progetto che era partito il 29 settembre 2021, presentato poi alla stampa il 22 aprile 2022, e che prevedeva la completa riconversione dell’impianto con l’inserimento di viti da allevare con il sistema ad alberello, compatibile con la pendenza del terreno, in simbiosi con le piante di olivo già in produzione. Le varietà sono state scelte con cura storica tra le varietà toscane più tradizionali, incluse quelle a rischio di estinzione perché poco redditizie, ma di altissima qualità. L’aspetto tecnico è seguito da alcuni tra i migliori professionisti della Toscana come l’agronomo Stefano Bartolomei e l’enologo Emiliano Falsini. “Il vigneto che andiamo a realizzare – sostiene Stefano Bartolomei – è un vigneto giardino e dovrà essere perfettamente integrato con l’ambiente circostante per mantenere inalterate le caratteristiche del paesaggio”. “Con la Vigna Michelangelo – continua Emiliano Falsini – prenderà forma il primo progetto di Vigneto Urbano a Firenze. Un progetto ambizioso, affascinate e suggestivo in uno degli scenari più belli ed evocativi della città. Un impegno importante, volto al recupero dell’antica viticoltura cittadina da sempre presente nella città culla del Rinascimento e dove il vino ha rappresentato, nel corso della storia, un importante segno distintivo.”
La Vigna Michelangelo è costituita da 700 viti così suddivise:
300 viti sono di Sangiovese, vitigno principe della Toscana, con i cloni scelti nella selezione CCL2000.
150 viti sono di Canaiolo, anch’esso vitigno molto diffuso in tutti gli areali chiantigiani, utilizzato per conferire eleganza e leggerezza ai Sangiovese più austeri, ma anche per il vino d’annata con la pratica del “governo alla toscana”.
100 viti sono di Foglia Tonda, vitigno coltivato con successo in Val d’Orcia e nella Valle dell’Arno, che unito al Sangiovese dà maggiore robustezza al vino e maggiore longevità.
Altre 100 viti sono di Pugnitello, varietà che sta offrendo interessanti risultati in Toscana, e che deve il suo nome alla caratteristica forma del grappolo a piccolo pugno chiuso.
Infine, cinquanta viti sono di Colorino del Val d’Arno, conosciuto anche come Abrostino o Abrusco. Il nome è dovuto alla sua buccia, intensamente dotata di colore rosso cupo. In autunno le foglie si colorano di un rosso fuoco e, con le striature rosso violacee in prossimità di qualche nodo, offrono un effetto scenico unico.
Per l’impianto è stata scelta la forma ad alberello, la forma più antica di allevamento conosciuta, già praticata da Greci e Romani, ma anche la più qualitativa e costosa: consente di controllare molto bene lo sviluppo arboreo della pianta e tenerlo limitato a favore di una migliore crescita dei grappoli. In pratica non abbiamo i consueti filari con i fili di ferro, ma ogni vite è protetta e si appoggia ad un piccolo tutore di legno. Le viti della Vigna Michelangelo, insomma, saranno curate e coccolate affettuosamente per ricavarne un vino fuori dal comune. Questa forma di allevamento richiede una lavorazione totalmente manuale, con costi di gestione importanti. Ogni alberello si trova sui vertici di un quadrato che ha un’altra vite al centro, come la faccia di un dado con il numero 5. Sarà così ottimizzata l’occupazione del suolo e la vite potrà sviluppare le sue radici nel migliore dei modi anche su questo terreno ripido. “Mi viene in mente – dice Maria – l’incitazione di Veronelli a ‘camminare le vigne’. Si potrà così farlo anche in città con la prospettiva di contribuire a rendere di nuovo vivibile e salutare una parte del contesto urbano.”
Quale sarà il futuro per la Vigna Michelangelo? Le barbatelle daranno i primi frutti adatti alla vinificazione solo fra tre anni, per raggiungere poi il vertice della qualità molto dopo. Il vino richiede pazienza, ma intanto l’appuntamento è per la vendemmia 2027 con la produzione della prima botte di vino dal vigore interamente michelangelesco. “Da quella botte si ricaveranno circa 700 bottiglie – conclude Maria – da vendere sul mercato internazionale tramite aste con finalità benefiche di sostegno sociale. Il fine della vigna non è comunque solo il vino, ma il rapporto che si crea tra uomo, terra e aria, un rapporto che ridimensiona la sterilità del cemento e dell’asfalto con la ricerca di un rispetto reciproco”. Diceva Andy Warhol: “Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare”. Se poi da questa terra nasce anche un grande vino, l’opera d’arte si completa.
Testo/Claudio Zeni – Foto fornite da Donne Fittipaldi